Marea nera nel Golfo del Messico: 20 miliardi di dollari come risarcimento

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20 miliardi di dollari. Tanto vale il prezzo del risarcimento di uno dei disastri ambientali più gravi degli ultimi anni, il maggiore di tutta la storia degli Stati Uniti, ovvero la fuoriuscita di petrolio nel Golfo del Messico avvenuta nel 2010: un giudice federale ha approvato in via definitiva il risarcimento, dopo che la bozza preliminare d’accordo era già stata siglata nel luglio 2015. La cosiddetta marea nera fu causata da un incidente alla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon della British Petroleum, provocando danni incalcolabili in termini economici ed ambientali nei suoi tre mesi di riversamento lungo le coste del Golfo.

Un incidente nel quale morirono 11 operai, danneggiando 5 Stati del Paese, ma che soprattutto ha avvelenato il mare e ucciso le biodiversità ospitate in quell’habitat, diffondendosi in modo inarrestabile, un incidente che per gravità forse è stato raggiunto e superato solo da quello delle dighe in Brasile lo scorso anno. Proviamo a ripercorrere le tappe principali di questo disastro ecologico, che a distanza di anni continua a far discutere l’opinione pubblica per le conseguenze che ha provocato e che presumibilmente continuerà a fare indirettamente ancora per molto tempo.

L’incidente e i danni all’ecosistema marino

pesci

Il 21 aprile 2010 si verifica la perdita nella piattaforma petrolifera della British Petroleum a seguito di un incendio: secondo gli studiosi per settimane il ritmo di fuoriuscita degli idrocarburi è stato di circa 795mila litri al giorno, per un totale stimato in 15 milioni di litri di petrolio finito in mare prima che la marea nera venisse arrestata. Complice il maltempo e il mare mosso, la chiazza di greggio si è allargata rapidamente arrivando a lambire le coste della Louisiana, Mississippi e di altri Stati del sud, arrivando ad estendersi per 1500 chilometri dopo nemmeno una settimana.

I danni all’ecosistema marino sono gravissimi: migliaia di pesci ed uccelli sono morti a seguito dell’ondata mefitica, nonostante gli interventi di volontari che hanno cercato disperatamente di salvare le biodiversità. Inoltre a poco distanza dal luogo del disastro, a circa 30 chilometri, si trova l’arcipelago delle Chandeleurs, un’oasi naturale rifugio per i pellicani e altri volatili nel periodo della deposizione delle uova, minacciata dal greggio e fonte costante di preoccupazione per le associazioni di animalisti. Ci vorranno anni prima che il mare e le creature che ospita possano tornare alle condizioni prima dell’incidente, ma nel frattempo l’inquinamento arriva a toccare l’intera catena alimentare.

Rischi per la salute

Gli studi effettuati sugli animali che vivevano nei pressi dei luoghi colpiti dalla tragedia hanno dimostrato tracce di petrolio nelle larve di granchio blu della zona di mare: questo significa che le sostanze tossiche sono già entrate all’interno della catena alimentare, risalendo fino all’uomo, con conseguenti rischi per la salute: tuttavia numerose campagne informative realizzate nei mesi successivi al disastro hanno voluto rassicurare la popolazione sui controlli riguardo il pescato prima di finire nelle tavole, ed anche il Presidente Obama mangiò pubblicamente pesce del Golfo del Messico per evitare panico alimentare. A due anni dal fattaccio, un gruppo di ricercatori dell’Università dell’East Carolina ha condotto un altro studio relativo alla composizione di alcuni microorganismi, alla base della catena alimentare, in precedenza rilevati presso i luoghi del disastro, in cui si evince inequivocabilmente la presenza di petrolio.

Ma i rischi per la salute derivano anche dalla qualità dell’aria: l’Environmental Protection Agency ha registrato in loco una crescita di agenti inquinanti che possono causare mal di testa, nausea, bruciore agli occhi, rinite e mal di gola, e per mesi l’odore dell’aria che si respirava nella zona era paragonabile in tutto e per tutto a quella dei gas di scarico di un’automobile.

Il processo

Soltanto nel 2012 ha inizio il processo alla BP, e numerosi rinvii hanno trascinato il dibattimento fino al 2016, quando si è giunti finalmente ad un accordo per il risarcimento. La cifra a carico dell’azienda sarebbe potuta andare andare dai 15 ai 30 miliardi di dollari in base alle stime effettuate e alle disposizioni di legge: una norma federale, il Clean Water Act, prevede infatti un minimo di 1.100 dollari per ogni barile versato, cifra che può moltiplicarsi fino al quadruplo per le compagnie che vengono ritenute colpevoli di negligenza. Alla fine l’accordo di luglio 2015, ratificato nell’aprile 2016, fissa la cifra del risarcimento a 20 miliardi di dollari, inclusi 5,5 miliardi di dollari di sanzioni civili per la Clean Water Act e il resto per coprire i danni ambientali. Tutti soddisfatti? Eric Schaeffer, direttore dell’Environmental Integrity Project di Washington, dichiarò fiducioso ai media all’inizio del processo: ‘Qualunque sia la decisione il caso della marea nera passerà alla storia come il disastro ambientale più costoso di sempre, superando di gran lunga quello causato della Exxon Valdez nel 1989, quando una petroliera dell’ExxonMobil si incagliò nel golfo di Alaska disperdendo in mare oltre 40 milioni di litri di petrolio‘. Resta l’amaro sospetto che nessun risarcimento, per quanto elevato, possa davvero ripristinare le condizioni ambientali di prima, facendo pagare alle prossime generazioni il prezzo di luoghi e biodiversità irreparabilmente contaminati dal disastro accaduto.

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