Mafia, Marcello Dell’Utri fece da mediatore tra Berlusconi e Cosa Nostra: la Cassazione conferma la pena

La Cassazione ha confermato la condanna a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa nei confronti dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. La Corte ha così accettato la richiesta della Procura della Cassazione rappresentata da Aurelio Galasso. La condanna di Dell’Utri, emessa in secondo grado il 25 marzo 2013 dalla Corte d’Appello di Palermo, diventa definitiva. Giuseppe Di Peri, l’avvocato che ha difeso Marcello Dell’Utri in Cassazione insieme a Massimo Krogh, ha fatto sapere che ricorreranno “Alla Corte Europea di Strasburgo per verificare se questo procedimento ha camminato nei giusti binari”.

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Marcello Dell’Utri fu il mediatore del patto tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi, stipulato con un incontro nel maggio 1974 con il fine di proteggere l’ex Presidente del Consiglio, che in tal modo fu posto sotto l’ala della mafia almeno fino al 1992. Con queste motivazioni, depositate il cinque settembre 2013 dalla Terza sezione della Corte d’Appello di Palermo, presieduta da Raimondo Forti, è stata stabilita la condanna in secondo grado per l’ex senatore del PdL e co-fondatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri. Dell’Utri è stato condannato a sette anni di reclusione per concorso in associazione mafiosa. Le motivazioni della sentenza descrivono un quadro allarmante: secondo i giudici il patto tra la mafia e l’allora imprenditore Berlusconi non solo è stato siglato, ma continuato nel tempo, con il versamento di “ingenti somme di denaro” come scrivono i giudici, fino almeno al 1992. Il Cavaliere era sotto la protezione della mafia e, a favorire tutto il processo, fu proprio il suo socio politico.

La genesi del patto risale al maggio del 1974, dall’incontro che vide i boss Gaetano Cinà, Stefano Bontade e Mimmo Teresi e Francesco Di Carlo da una parte, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi dall’altra. Nelle 477 pagine delle motivazioni presentate a settembre scorso, i magistrati di Palermo hanno descritto il legame che ha unito Cosa Nostra all’imprenditore milanese, ormai ex Cavaliere di Arcore, per il tramite dell’ex senatore.

Le motivazioni sono arrivate nei tempi previsti dopo il verdetto di condanna del marzo 2013, dopo la sentenza a 9 anni del primo grado: i magistati avevano ottenuto una proroga di tre mesi per la complessità del processo.

Dalle carte apprendiamo che nel 1974 Dell’Utri fu il mediatore tra la mafia e Berlusconi: tutto inizia con l’incontro con i boss durante il quale il patto viene siglato. “In virtù di tale patto, i contraenti (Cosa nostra da una parte e Silvio Berlusconi dall’altra) e il mediatore contrattuale (Marcello Dell’Utri), hanno conseguito un risultato concreto e tangibile costituito dalla garanzia della protezione personale all’imprenditore tramite l’esborso di somme di denaro che quest’ultimo ha versato a Cosa nostra tramite Dell’Utri, che mediando i termini dell’accordo, ha consentito che l’associazione mafiosa rafforzasse e consolidasse il proprio potere“. Protezione in cambio di soldi, quindi, una metodologia cara allo stile mafioso, inaugurata poco dopo l’incontro con il pagamento di 100 milioni di lire al boss Cinà.

Non solo. “È da questo incontro che l’imprenditore milanese, abbandonando qualsiasi proposito di farsi proteggere da rimedi istituzionali, è rientrato sotto l’ombrello di protezione mafiosa assumendo Vittorio Mangano ad Arcore e non sottraendosi mai all’obbligo di versare ingenti somme di denaro alla mafia, quale corrispettivo della protezione“. Berlusconi, all’inizio della sua carriera imprenditoriale teme di finire nel mirino della criminalità: invece di rivolgersi allo Stato, stringe un patto con la mafia, senza più tornare indietro.

Mangano divenne così lo stalliere di Arcorenon tanto per la nota passione per i cavalli” ma “per garantire un presidio mafioso nella villa dell’imprenditore milanese“. Dell’Utri, ricordano i giudici, ha ammesso di aver indicato Mangano a Berlusconi come persona da assumere ma ha sostenuto di non essergli amico, anzi di averne paura. Ma la Corte non lo ritiene credibile. “La continuità della frequentazione, l’avere pranzato in diverse occasioni con lui, sono circostanze – recita la motivazione – che hanno consentito di escludere che i rapporti svoltisi in un arco temporale che ha coperto quasi un ventennio nel corso del quale il Mangano è stato arrestato e prosciolto e poi nuovamente arrestato e poi ancora prosciolto, possano essere stati determinati da paura”.

Un intreccio di criminaltà organizzata, soldi e potere che, scrivono i giudici, “è andato avanti nell’arco di un ventennio“, e non in maniera saltuaria, ma con comportamenti “tutt’altro che episodici, oltre che estremamente gravi e profondamente lesivi di interessi di rilevanza costituzionale“. Dell’Utri ha “agito in sinergia con l’associazione” e lo ha fatto con consapevolezza: tutto l’opposto di quanto dichiarato dall’imputato che si è descritto come una “vittima“, spaventato dalla potenza dei boss mafiosi.

Il co-fondatore di Forza Italia non aveva paura dei mafiosi: al contrario, scrivono i giudici, aveva “rapporti di assoluta confidenza e mai condizionati dal timore evocato dall’imputati, l’atteggiamento di mediazione sperimentato con Totò Riina nel periodo successivo alla morte di Stefano Bontade e fino al 1992, sono del tutto incompatibili con il rapporto che lega l’estortore alla vittima. Del resto, Dell’Utri non ha mai dimostrato di temere i contatti con i boss mafiosi e di concludere accordi con loro“.

L’ex senatore non ha mai cercato di allontanarsi dagli ambienti mafiosi, anche quando ne aveva l’occasione; ha invece dimostrato una “naturale propensione a entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi“. “In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l’associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l’anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell’imprenditore milanese e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell’associazione“, scrivono ancora i giudici.

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