L’anno che a Roma fu due volte Natale di Roberto Venturini, il sorriso che resiste tra le occasioni perdute

Roberto Venturini, l’autore di Tutte le ragazze con una certa cultura hanno almeno un poster di un quadro di Schiele appeso in camera, Premio Bagutta Opera Prima nel 2018, sceglie Torvaianica come ambientazione del suo romanzo, L’anno che a Roma fu due volte Natale, e come protagonisti una serie di personaggi tragicomici e grotteschi.

Creature che si muovono in una realtà quasi sospesa tra la dimensione onirica, il passato e il presente: Alfreda, obesa e diabetica, accumulatrice seriale, vive circondata dagli oggetti inutili che le ricordano il marito, il grande amore perduto, e difende rabbiosamente il suo diritto all’infelicità, anche se deve dividerla con una moltitudine di insetti che hanno preso possesso di ogni spazio della casa. Affetta da demenza senile, risulta essere l’interlocutrice privilegiata di una Sandra Mondaini che la sera va a sedersi sulla sua poltrona in camera da letto e borbotta qualcosa di incomprensibile. Marco, il figlio di Alfreda, è quasi intrappolato nella gabbia d’amore di ciò che resta della sua famiglia e pur di tentare di rendere felice la madre si imbarca in un’impresa a dir poco assurda: trafugare dal cimitero del Verano la salma di Raimondo Vianello per riunire la coppia simbolo della felicità coniugale italiana, inspiegabilmente divisa dopo la morte.

Surreale e onirico, L’anno che a Roma fu due volte Natale racconta la vita di chi vive ai margini, costretto dalla società o dai propri errori.
Ecco allora personaggi splendidi nella loro profonda umanità, come Er Donna, il travestito più bello della via Pontina, o Carlo, che manda giù i sensi di colpa ad ogni pagina.

Il passato, narrato con una vena nostalgica e malinconica eppure potentemente ironica, è quello del Villaggio Tognazzi, una sorta di tappa obbligata per le tante celebrità che frequentavano Cinecittà; il presente, fatto di degrado, criminalità, dispiaceri e un’umanità dimenticata, è reso vivo attraverso una lingua che lascia spazio al romanesco per strappare al lettore un sorriso, spesso amaro, in mezzo a tanto squallore.

Nostalgia del passato e rimpianto per le occasioni perdute, normalità e follia, la memoria individuale e quella collettiva vanno a braccetto in questo romanzo in cui il ricordo diventa invasivo, anche fisicamente, ma alla fine è rassicurante come l’abbraccio di una madre. Ma se l’essenza della vicenda non può che essere malinconica, il messaggio positivo è racchiuso nell’amore che lega Marco alla madre e a quella coppia di amici strambi e decisamente sopra le righe che sono a tutti gli effetti la sua famiglia. E nelle ultime battute del romanzo Marco ricorda le parole del padre, un antidepressivo naturale:

Lo sai come funzionano le preoccupazioni? Tu immaginale come una tazzina di caffè. Quanto vuoi che possa pesare una tazzina di caffè? Poco, no? Però amore mio, se tu tieni la tazzina dieci minuti, la tazzina pesa poco che manco la senti. Se la tieni una mezz’ora, il polso inizia a indolenzirsi. Se la tieni per due ore, ti formicola tutto il braccio. Se la tieni tutto il giorno, la mano ti fa talmente male che la tazzina casca e si rompe. Allora, Marcolì, qualsiasi cosa ti succeda, quando nun je la fai più, prima di romperla, tu poggiala per un po’ sul tavolo, anche per poco tempo, la tazzina di caffè, e pensa a una cosa bella.

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