Disoccupazione over 50: la colpa è anche della mafia


La progressiva estensione della criminalità dai mercati illegali (contrabbando, droga, armi) ad attività economiche “formalmente legali” ha allargato le maglie di quella “area grigia” in cui i confini tra lecito e illecito sono opachi, porosi e rischiano di intrappolare parte del mondo imprenditoriale sano del Paese, della società civile, dell’amministrazione pubblica. Del resto, la penetrazione criminale nei mercati legali a volte è, paradossalmente, meno rischiosa e più in grado di assicurare rendimenti, opportunità, spazi operativi, soprattutto a fronte di un contesto economico ancora molto incerto e di difficoltà evidenti per il tessuto produttivo nazionale.

In questo breve articolo forniamo una panoramica dei principali settori di attività feriti da un’illegalità a volte diffusa, a volte strisciante; brevi “pillole”, amare da digerire ma necessarie per conoscere il paziente e trovare le cure per andare “oltre la crisi”.

Il ventaglio dei settori osservati è molto vario: alcuni rientrano nell’orbita “tradizionale” della criminalità (commercio, edilizia); altri sembrano essere oggetto di più recente sviluppo e interessamento (sale da gioco, rifiuti, energie alternative); alcuni sono stimolati dalla possibilità di intercettare flussi cospicui di risorse pubbliche (sanità, appalti), altri vanno oltre la dimensione locale del business per dedicarsi all’export (contraffazione, smaltimento dei rifiuti speciali).

Questo articolo non esaurisce di certo il campo d’osservazione dell’economia illegale (si pensi ancora al turismo, ai beni culturali, al commercio, ai mercati finanziari), ma vuole fornire primi spunti di riflessione concentrandosi sul fenomeno del c.d. “caporalato”.

Il fenomeno del caporalato riguarda l’intermediazione illecita della manodopera di cui si avvale l’imprenditore disonesto, spesso in accordo con le organizzazioni criminali del territorio, in un regime di economia sommersa che produce evasione ed elusione fiscale contributiva.

I lavoratori impiegati in maniera illegale nel settore agricolo se in passato erano preferibilmente composti da extracomunitari, oggi sono composti soprattutto, col perpetrarsi della crisi economica in atto, da lavoratori che hanno perso il posto di lavoro o dai cd NET (not in employment not in training)

Il loro stato di soggetti privi di tutela e bisognosi di lavoro li vincola al c.d. caporale che, pur imponendo condizioni disumane, quel lavoro gli procura, creando un forte rapporto di dipendenza nelle vittime e omertà nel denunciare.

L’Osservatorio Placido Rizzotto (2014) stima le vittime del caporalato in circa 400 mila persone in tutta Italia, di cui tra le 70 e le 105 mila (prevalentemente stranieri e giovani disoccupati italiani) si troverebbero ogni anno in condizioni di estrema vulnerabilità socio‐economica.

Il caporalato avrebbe un costo per le casse dello Stato di almeno 420 milioni di euro l’anno in termini di evasione contributiva, oltre alla quota di reddito indebitamente sottratta ai lavoratori (retribuiti mediamente la metà dei minimi contrattuali).

In un simile contesto la riforma del lavoro attualmente in atto, se non correttamente interpretata e applicata, potrebbe agevolare il fenomeno delle infiltrazioni mafiose nel tessuto produttivo nazionale per i seguenti motivi.

Differentemente da quanto si possa pensare, non è tanto l’abolizione dell’articolo 18 ad agevolare il fenomeno delle associazioni mafiose ma piuttosto, la completa assenza di tutele poste dall’ordinamento e dallo Stato a favore del lavoratore in termini di assistenza alla ricollocazione del lavoratore.

La delega prevista dal Governo di attuazione del “Jobs Act” riguardante lo schema delle politiche attive appare incerto. Un motivo di incertezza, è rappresentato dalla circostanza che il meccanismo dei voucher, intesi come “dote individuale di ricollocazione”, ruota di nuovo attorno ai centri pubblici per l’impiego che, oltre ad aver dimostrato anche recentemente profondi limiti strutturali e operativi nell’ambito del programma europeo “Garanzia giovani”, risultano oggi al centro di una complessa e tormentata vicenda che si colloca a cavallo tra il superamento delle Province e la riforma delle competenze assegnate dal Titolo V della Costituzione allo Stato e alle Regioni in materia (anche) di mercato del lavoro.

Inutile quindi dire che la maggior parte dei lavoratori che perdono un posto di lavoro oggi non hanno la corretta assistenza per essere ricollocati in una mansione analoga rispetto al grado di competenze acquisite, finendo così nelle “mani” delle organizzazioni criminali. E così cresce il senso di risentimento dei lavoratori verso lo Sato e si innesta il meccanismo di sfiducia nelle autorità politiche e nelle istituzioni.

Fenomeno che sta diventando sempre più grave e che interessa soprattutto i lavoratori over cinquanta, ossia tutta quella schiera di padri/madri di famiglia che, una volta finita l’indennità di disoccupazione (che dura 12 mesi), finita la mobilità, si trovano licenziati.

Ecco che per i lavoratori/lavoratrici inizia la corsa disperata alla ricerca del lavoro.

“L’importante non è la carriera, ma un pasto caldo”.

L’ultimo rapporto del Censis ha rilevato come nel quinquennio 2009-2014 i disoccupati over cinquanta siano aumentati del 146,1%, con una netta prevalenza di uomini (+160,2%) rispetto alle donne (+111,1%). Tra gli italiani ultracinquantenni che restano senza lavoro (460mila nel 2013), il 61,4% non trova una nuova occupazione entro l’anno, solo per il 38,6% la disoccupazione dura meno di 12 mesi.

I canali utilizzati dai disoccupati maturi per cercare lavoro non si discostano troppo, comunque da quelli della media dei disoccupati. Circa 9 su 10, si affidano infatti, al passaparola di parenti e amici mentre 1 su 3 si affida ai centri per l’impiego. E i rimanenti? Cadono nel lavoro sommerso, diventano ostaggio dell’usura. Questo è riconducibile non al fatto che l’ordinamento fino ad oggi abbia previsto forme di contratti flessibili quali contratti a progetto, lavoro interinale, lavoro a chiamata ma piuttosto all’uso distorto con cui questi “contratti flessibili” sono stati applicati nella prassi lavorativa.

La diffusa prassi di un imprenditore di utilizzare impropriamente queste tipologie contrattuali, perché persuaso solo dal fine di trovare un “escamotage” per non assolvere l’onere contributivo nei confronti del lavoratore, ha ulteriormente permesso alla mafia di entrare e di sfruttare l’utilizzo improprio di queste forme contrattuali flessibili permeando così definitivamente il tessuto produttivo imprenditoriale nazionale.

Infatti in un simile contesto, l’organizzazione mafiosa che subentra fraudolentemente in una successione di appalto di lavori di opere e servizi (es: appalto delle imprese di pulizie; appalto nelle imprese di edilizia), ha il “terreno” pronto per abusare ulteriormente della manodopera dei lavoratori che già in partenza sono stati spesso erroneamente inquadrati.

Per prevenire queste forme di abusivismo il Jobs Act cosa prevede?

Il Decreto Legislativo che a breve dovrà entrare in vigore sul riordino delle tipologie contrattuali, prevede l’abolizione, salvo determinate ipotesi, del c.d. contratto a progetto, sancendo che i medesimi contratti in essere andranno in esaurimento fino a fine dicembre 2015 e a partire dal 2016 essi verranno “banditi” dall’ordinamento, convergendo così tutte le speranze dell’occupazione sulla forma del contratto a tutele crescenti.

Abolita a partire dal 2016 anche l’associazione in partecipazione.

Sebbene con questa riforma il Premier abbia perseguito l’obiettivo di rendere più flessibili le assunzioni e i licenziamenti, pensando di dare così un forte segnale all’Europa di cambiamento in direzione del modello basato sulla flexsecurity, e altresì vero che il contratto a tutele crescenti potrebbe creare non pochi fenomeni distorsivi nel mercato del lavoro così riassumibili:

In primo luogo i diversi regimi di tutele tra loro profondamente differenti a seconda della data di assunzione, prima o dopo il 7 marzo 2015 riconducibili alla sussistenza o meno al diritto della tutela della reintegrazione, oltre ad essere di dubbia legittimità costituzionale, è portatrice di nuovo contenzioso.

In secondo luogo questa diversificazione di tutele fra vecchi e nuovi assunti comporta che questi ultimi esclusi dal campo di applicazione del nuovo articolo 18, manterranno a vita, le tutele ereditate del vecchio regime.

Non solo, rimane poi il quesito se, una volta scaduta la previsione dell’esonero contributivo previsto da Legge di Stabilità del 2015 computato nel termine di tre anni, gli imprenditori saranno ancora incentivati ad assumere con questa forma contrattuale?

Accolta con favore la leva dell’incentivo fiscale, ma l’INPS sarà in grado di garantire a tutti i lavoratori assunti con il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, la corresponsione dei contributi che in questo caso il datore di lavoro non verserebbe per i primi tre anni perché esonerato per legge?

Questi profili delineati di incertezza della Riforma potrebbero agevolare ulteriormente l’intervento della mafia non solo nel mercato del lavoro ma anche nella gestione dei rapporti di lavoro da parte dell’imprenditore con il singolo lavoratore.

E la storia si ripete.

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