Immigrazione in Europa: la colpa è nostra e del nostro colonialismo

Bisogna aiutarli nei loro Paesi”. Destra, sinistra, governi e istituzioni continuano a ripeterlo quando si parla di immigrazione, ma è davvero quello che stiamo facendo? Vogliamo davvero farlo o è un modo per pulire le coscienze e non essere tacciati di “buonismo”? Le potenze europee sembrano dimenticare quanta responsabilità hanno avuto nel corso dei secoli, quanto il rapporto tra migrazioni di oggi e colonialismo di ieri sia ancora stretto. Il Nord del mondo ha cancellato la memoria di cosa ha fatto al Sud in nome del progresso, della ricchezza e del potere: ha chiuso le frontiere dopo averle aperte per saccheggiare terre e distruggere milioni di vite e ora chiede a quelle stesse popolazioni di non partire.

L’immigrazione non è un fenomeno recente. La storia dell’uomo nasce nel solco della migrazione, come dimostrano studi e ritrovamenti archeologici: sin dalla preistoria, l’uomo si sposta alla ricerca dei territori più adatti. Con l’avanzamento della tecnica e l’inizio delle grandi esplorazioni, sono caduti i confini geografici: il Nuovo Mondo è entrato nell’ottica europea e l’Africa e l’Asia sono diventate terre di conquista. La scoperta di nuove ricchezze ha prodotto quel fenomeno noto come colonialismo. Le ricche nazioni del Vecchio Continente sono approdate in paesi lontani e li hanno conquistati, allargando i propri confini. Le popolazioni locali hanno subito la stessa sorte un po’ ovunque, finendo nelle maglie dei nuovi poteri. Terre saccheggiate, gestite direttamente dai “bianchi”, confiscate a chi le ha abitate per secoli: popolazioni deportate o decimate da malattie a loro sconosciute, privati di ogni libertà e di ogni futuro. Non è una visione “terzomondista”, è la realtà della storia. L’Europa ha aperto i confini del mondo, ha sfruttato ogni angolo di terra conosciuta per arricchirsi e ora che c’è il conto da pagare lo rimanda al mittente.

Schiavi e schiavisti

Con il colonialismo, le Nazioni europee sono sbarcate in altri continenti da “padrone”. Fin dalla scoperta delle Americhe, gli europei sono approdati sui nuovi territori per ingrandire il loro potere economico. Lo hanno fatto senza scrupoli, massacrando intere popolazioni, rendendole schiave o rilegandole nelle riserve. Dalla prima ondata di conquista diretta nel Nuovo Mondo si è passati alla seconda verso Asia e Africa. Fino agli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento, due terzi del globo era sotto il dominio di poche nazioni europee: Inghilterra e Francia su tutte, seguite da Olanda, Belgio e Portogallo, mentre la Spagna ha visto nell’800 il tramonto del suo impero americano. Anche l’Italia ha fatto la sua parte, colonizzando tra fine dell’Ottocento e i primi anni Trenta del Novecento Eritrea, Somalia, Libia, Etiopia, oltre a isole del Dodecaneso e l’Albania.

Per secoli, i governi europei hanno dominato su altri Paesi, hanno tolto ai locali il controllo della loro economia e della loro terra, li hanno resi schiavi, li hanno massacrati o, nella migliore delle ipotesi, li hanno “educati” allo stile di vita occidentale.

Il piccolo Belgio, oggi sede delle istituzioni europee, ha controllato fino al 1962 la colonia del Congo-Belga, oggi Repubblica Democratica del Congo, un territorio 76 volte più grande del Belgio stesso.

L’Inghilterra di David Cameron, che oggi non vuole immigrati ma è disposto a mandare uomini e navi per fermare le partenze, solo in Africa ha colonizzato l’attuale Botswana, l’Uganda, il Kenya, la Somalia settentrionale, l’Egitto, il Sudan, la Nigeria, la Costa d’Oro, la Sierra Leone, il Gambia e la Rhodesia, oggi Zambia e Zimbabwe (tra l’altro imponendo un regime di apartheid). Tutti territori che sono diventati indipendenti intorno al 1960.

La Francia di Francois Hollande, che oggi rimanda indietro i migranti perché “sono un problema italiano” e li costringe a stazionare sugli scogli di Ventimiglia, fino al 1960 circa aveva il dominio in Algeria, Marocco, Tunisia, Africa occidentale sahariana e quella equatoriale (quindi i territori di Costa d’Avorio, Senegal, Guinea francese -oggi Guinea, Sudan francese – l’attuale Mali, Niger, Mauritania e l’attuale Burkina Faso; Gabon, Congo Centrale,il territorio che oggi è la nazione della Repubblica Centrafricana e Ciad), Madagascar. E non stiamo contando i possedimenti inglesi e francesi in Asia che mantennero fino a 60 anni fa.

Per secoli, le potenze europee hanno minato la stabilità di questi paesi e ne hanno cancellato il futuro: hanno deportato uomini e donne, trattandole come schiavi, hanno usato le ricchezze naturali per espandere il loro potere economico, hanno deciso del loro destino. Oggi non è più un loro problema.

Il colonialismo italiano

L’Italia non è rimasta a guardare. Tra il 1880 e il 1940 ha partecipato alla colonizzazione, scegliendo il Nord Africa come territorio d’elezione. Libia, Somalia, Etiopia ed Eritrea erano l’impero italiano, almeno fino alla Seconda Guerra Mondiale, quando il crollo di Benito Mussolini portò alla caduta dei possedimenti coloniali. Unica eccezione la Somalia, rimasta fino al 1960 sotto amministrazione fiduciaria italiana.

Anche noi abbiamo fatto la nostra parte: abbiamo perpetrato l’immagine razzista delle popolazioni locali, usandole come manodopera a basso (o nullo) costo, abbiamo violentato le donne, razziato interi paesi. In più, abbiamo usato armi chimiche in quella che fu la Guerra d’Abissinia. Nel libro “Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale”, uscito a marzo, lo storico e politilogo Simone Belladonna ha fatto i conti del disastro: a nord del Paese furono sganciate 1.020 bombe da 500 chili caricate a iprite, a sud (in territorio somalo), 95 bombe a iprite e 271 a fosgene. Il dibattito in Italia è stato molto acceso, perché per anni si è negato l’uso di armi chimiche sulla popolazione. Solo nel 1996 l’allora ministro della Difesa Domenico Corcione ammise l’uso delle bombe chimiche dei militari italiani.

Nel gennaio 2009 viene scoperto il diario di un militare italiano, Elvio Cardarelli, che narra gli orrori della guerra chimica. “Era stato allora dato l’ordine di distruggere il villaggio con il fuoco insieme ad altri due, siti poco distante, con tutti gli abitanti (donne e bambini compresi) affinché nessuno sfuggisse all’effetto del fuoco purificatore”, scrive il soldato.

Qualche anno fa, un giovane storico, Matteo Dominioni, si imbatte in alcuni documenti e nel diario del sergente maggiore Boaglio. Nel libro “Lo sfascio dell’Impero – Gli Italiani in Etiopia 1936-1941”, mette nero su bianco la tragedia della Grotta della iprite di Gaia Zeret-Lalomedir. “Tra il 9 e l’11 aprile 1939 avvenne una delle stragi più efferate di tutta l’occupazione dell’Etiopia. Un gruppo di ribelli, inseguito da una colonna italiana, si asserragliò all’interno di una grande grotta. Si trovava nella regione del Gaia Zeret-Lalomedir. L’assedio durò diversi giorni. Per avere la meglio sui ribelli si chiese l’intervento di un plotone del reparto chimico. Quando i superstiti decisero di arrendersi gli italiani divisero gli uomini e i ragazzini dalle donne e dai bambini. I primi vennero mitragliati a gruppi di cinquanta sul ciglio del burrone. I bambini e le donne non sopravvissero a lungo a causa dell’iprite”. Il bilancio finale è stimato tra le 1200 e le 1500 vittime.

Nuovi schiavi e nuovi schiavisti

Oggi, le nazioni europee cercano di contenere l’arrivo dei migranti dal Corno d’Africa e dal Medio Oriente, da terre dove infuriano guerre e violenze, dove la povertà è la regola quotidiana: tutte situazioni che gli stessi governi occidentali hanno contribuito a creare. Tra le diverse proposte del “bisogna aiutarli a casa loro”, c’è anche il piano UE per la lotta agli scafisti. Sono infatti loro i nuovi schiavisti, coloro che sfruttano la disperazione dei nuovi schiavi per arricchirsi. Come se noi europei fossimo esenti da colpe, anche recenti, i trafficanti di esseri umani sono diventati la “chiave” per risolvere la questione immigrazione. Invece di fare i conti con il passato e cercare nuove risposte, si torna ai vecchi metodi. Si chiudono le frontiere per non vedere il problema “a casa nostra”, mentre le diplomazie internazionali accumulano errori e disastri sul fronte politico.

In una lettera pubblicata su OpenDemocracy il 21 maggio, e riproposta in Italia da Internazionale, più di trecento esperti di migrazione hanno criticato apertamente l’operazione militare con cui l’UE vorrebbe fermare il “traffico di essere umani”. Quello che professori e specialisti delle più grandi università da Oxford a Harvard, da Yale a Princeton, hanno evidenziato è che il piano si basa “una pericolosa distorsione della storia”. La lettura che danno oggi i paesi responsabili della tratta di esseri umani è, ancora una volta, sbagliata.

Cercare di fermare il traffico di esseri umani con la forza militare non vuol dire prendere una nobile posizione contro il male dello schiavismo e neanche contro il ‘traffico’. Significa semplicemente proseguire una lunga tradizione in cui gli Stati usano la violenza per impedire ad alcuni gruppi di esseri umani di muoversi liberamente”, scrivono gli studiosi.

Gli scafisti non sono i nuovi schiavisti semplicemente perché lo schiavismo era diverso da quello che accade oggi. “Gli africani schiavizzati non volevano andarsene”, ricordano nella lettera. Chi arriva oggi sulle coste europee, lo fa perché se ne vuole andare. “Se fossero liberi di farlo, prenderebbero un volo economico che le compagnie a basso costo mettono a disposizione tra il Nord Africa e l’Europa, pagandolo molto meno rispetto al passaggio estremamente pericoloso attraverso il mare”. Per questo, chiedono che si smetta “di abusare della storia dello schiavismo per legittimare azioni deterrenti”, aprendo invece le frontiere in nome delle richieste di “libertà e diritto di movimento” che i veri attivisti anti schiavismo chiedono fin dall’Ottocento.

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