Collaboratori di giustizia: toccato il fondo si inizia a scavare

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Quando si tocca il fondo non si può che risalire. In Italia, invece, si inizia a scavare. Sembra, purtroppo, questa la tendenza nel bel Paese. E, così, situazioni già gravi sono destinate ad aggravarsi ulteriormente e non trovare mai una soluzione. Forse perché una soluzione non la si vuole trovare. È questo il caso dei collaboratori di giustizia, quei mafiosi che decidono di pentirsi e passare dalla parte dello Stato. Stato che, però, non sempre sa proteggerli, tutelarli e assisterli come dovrebbe. A vincere, quindi, sono le mafie.

Del caso di Luigi Bonaventura ce ne siamo già occupati con un’intervista alla moglie per la rubrica ‘La mafia è Donna’ di PourFemme. In quell’occasione Paolo Emmolo ha raccontato la difficile situazione in cui sono costretti a vivere lei e i suoi figli (Leggi qui la nostra inchiesta) da quando, ormai sette anni fa, il marito ha deciso, forse anche grazie al suo esempio, di cambiare vita. Lì ci aveva spiegato come le fosse negato “il diritto di essere una mamma normale” e quanto fosse già allora difficile per lei far capire ai suoi figli che lo Stato è comunque meglio della ‘ndrangheta.

Già questo ci sembrava abbastanza grave per uno Stato che dovrebbe, anche tramite l’incentivazione al pentitismo, combattere le mafie. Ora, però, la situazione è addirittura peggiorata. Un trasferimento di località protetta dove risiedere ha di nuovo sconvolto la vita della famiglia Bonaventura. E non certo soltanto per il trasferimento in sé. A Termoli, lì dove vivevano, infatti non sussistevano più i requisiti minimi di sicurezza (forse anche perché stesso il programma di protezione aveva contribuito a farli mancare) e, quindi, dopo oltre quattro mesi dalla prima comunicazione l’intero nucleo familiare è stato traferito in una nuova località.

Quattro mesi per chi, in un posto, rischia la vita sembrano un’eternità, ma sono serviti per programmare tutto in ogni minimo dettaglio, per evitare che nella nuova località potessero venire a mancare di nuovo i requisiti di sicurezza, per far sì che almeno lì la famiglia potesse provare a condurre una vita normale.

E invece Luigi Bonavenutura, sua moglie e i suoi due figli è da quasi un mese che aspettano i documenti di copertura con le loro nuove identità e non sanno nemmeno come presentarsi ai nuovi vicini di casa. Nonostante alcune gravi patologie della moglie e di altri familiari sottoposti a tutela, hanno dovuto aspettare 15 giorni per avere le tessere sanitarie per acquistare le medicine e potersi rivolgere ad un medico di base e ancora aspettano che le cartelle cliniche vengano trasferite da una regione all’altra con i nuovi dati anagrafici. Ma soprattutto aspettano ancora di sapere chi sono i loro referenti territoriali ufficiali, quegli agenti di Polizia o carabinieri che dovrebbero essere gli unici a sapere la loro reale identità e occuparsi delle loro protezione, oltre che dei trasferimenti quando l’ex boss deve andare a testimoniare ai processi. (Scopri qui cosa prevede il programma di protezione)

Viene allora da chiedersi a cosa siano serviti quei quattro lunghi mesi di attesa, durante i quali appunto la sicurezza della famiglia Bonaventura era talmente a rischio da rendere necessario un trasferimento, se giunti nella nuova località protetta la situazione non solo non è migliorata ma è addirittura peggiorata. Ma soprattutto viene da chiedersi quanto realmente lo Stato tenga alla sicurezza di Luigi Bonaventura e di molti altri collaboratori di giustizia come lui.

Una risposta, amara, la dà lo stesso Bonaventura in un lungo sfogo che noi abbiamo voluto raccogliere e riproporre nella sua quasi interezza, affinché arrivi a tutti la delusione e lo sconforto di chi ha riposto le proprie speranze nella giustizia. Così nessuno potrà dire di non sapere e chiunque dovrà indignarsi nel sapere che un uomo, che ha affidato la propria sicurezza allo Stato, oggi dica di voler tenere i riflettori mediatici accesi su di sé anche per sentirsi più sicuro. Da ex ‘ndraghetista sa bene che la mafia non lo toccherebbe mai fino a quando avrà gli occhi puntati addosso e, così, si preoccupa da solo di garantirsi quella protezione che lo Stato gli ha promesso ma non riesce ad assicurargli.

E soprattutto chiunque dovrà chiedersi che Stato è quello dove un pentito di mafia arriva a dire: «Se lo Stato non vuole più i pentiti lo dica chiaramente. Rischiamo la vita ogni giorno. L’unica alternativa sarebbe quella di mollare per fare contenti un po’ tutti, ma io questo non lo voglio fare. Però non voglio neanche morire: non mi interessa passare per eroe, voglio vivere»? Luigi Bonaventura vorrebbe chiederlo alla Commissione Parlamentare Antimafia e, forse, dovrebbero essere proprio loro, eletti per rappresentare gli italiani, a dare a lui e a tutti noi una risposta.

«Continuerò la mia battaglia fino a quando vedrò un barlume di speranza e anche oltre», dice oggi Luigi Bonaventura. Di sicuro rappresenta una speranza vera e concreta per lui, per i suoi familiari ma anche per tutti i collaboratori di giustizia la petizione lanciata da alcuni cittadini per chiedere più sicurezza per Luigi Bonaventura. Una petizione che, oltre al già di per sé importante scopo, evidenzia altri significati: i pentiti devono essere considerati un importante strumento di lotta alle mafie e già 15mila persone (tanti sono ad oggi i firmatari) vedono i collaboratori di giustizia non solo come degli ex mafiosi (Leggi qui l’opinione di Giovanni Falcone sui pentiti di mafia).

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