Quota o non quota? L’ipocrisia delle quote rosa

Quota o non quota? Il dibattito politico e sociale, recentemente, si è incentrato sulla questione delle quote rosa e anche io, personalmente, ho avuto modo di dibatterne parecchio. A dir la verità, io non mi sento una quota e mi ripugna essere considerata un numero, una percentuale obbligatoria. Penso che sia squalificante per una donna l’essere inserita in una lista elettorale solo per il fatto di essere nata donna. Siamo donne, non una specie in via d’estinzione. Le donne non sono una minoranza da tutelare o una razza, una cultura differente. Le donne sono parte integrante e vitale della comunità, sono già nel tessuto sociale.

In questo senso le quote rosa relegano la donna a minoranza etnica da tutelare e, per quanto siano necessari dei provvedimenti legislativi a tutela delle peculiarità femminili, le quote rosa partono e arrivano completamente dalla parte sbagliata. Gli articoli 3 e 4 della Costituzione spiegano chiaramente che tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di sesso, religione, cultura e che ognuno di essi deve avere pari possibilità di partecipare alla vita politica e sociale del Paese. Dunque, perché le quote rosa? Non sarebbe sufficiente mettere in atto la Costituzione? Abbiamo bisogno di riserve speciali per garantire un nostro diritto? E’ una legge alla quale trovare ampi sotterfugi.
In un noto partito di maggioranza è stato accolto come altamente femminista il gesto di inserire tutte donne come capilista per le Elezioni Europee, anche se, qualora dovessero essere elette dovrebbero scegliere se stare al Parlamento Europeo oppure no. In ogni caso, il loro posto verrebbe preso da maschi. Non è forse un ottimo escamotage? Come quello di nominare nelle aziende o negli incarichi pubblici le donne presidenti, ma gli uomini amministratori delegati. I presidenti hanno funzioni di rappresentanza, ma a “governare” realmente sono gli amministratori delegati. Il fenomeno è detto “pinkwashing”, tradotto “Donne sì, ma con calma e solo per apparenza”. Ecco perché trovo intollerabile, al limite dell’incostituzionalità, il concetto di “quota rosa”.
Ha funzionato nei paesi scandinavi perché lì sono riusciti a risolvere un problema culturale molto più serio. L’Italia vive sul “fatta la legge, trovato l’inganno” e non ha voglia di progredire a livello sociale. Le “quote rosa” sono inutili se non risaniamo prima i motivi per cui per le donne è già difficile avvicinarsi al fare politica. Sono una misura che scavalca il reale problema, che agiscono come il mettere la polvere sotto il tappeto, non aiutando a superare il presupposto di una società fondamentalmente maschilista che non aiuta le donne, nella loro particolarità e peculiarità, a partecipare attivamente e paritariamente alla vita politica e sociale. Sono superficiali se non arginiamo la piaga del lavoro femminile, della tutela della maternità.
Quest’imposizione dall’alto di una mente illuminata (mi è stata data questa definizione in merito alle quote rosa e vorrei capire a chi appartiene la mente illuminata) non risolve il problema, gli mette un cerotto momentaneo. Si deve agire partendo da altri punti, culturali principalmente, cominciando a non barattare nessuna conquista o richiesta sociale in nome di una manovra economica. Per questo motivo parlare della situazione della donna in Italia non è semplice, risulta difficile trovare un punto di partenza o una questione che emerga in modo preponderante sulle altre.
Il nostro è un paese socialmente arretrato, dove le questioni politiche vengono barattate sul piano delle conquiste sociali. Funziona così nelle alleanze politiche. Si propongono i PACS, ma ci si rinuncia in nome di una manovra economica. La legge elettorale si incaglia sulle quote rosa. La convenzione di Istanbul viene votata da poche anime pie. Il nostro paese manca di educazione alla diversità, al rispetto della peculiarità che l’essere differenti comporta. Brindiamo a diritti che ci vengono concessi, ma che fanno parte da sempre della Carta dei Diritti dell’Uomo.

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