Perché il parrucchiere cinese sì e il bracciante senegalese no?

Immigrati

[didascalia fornitore=”Ansa”]Foto esemplificativa di un parrucchiere cinese e un bracciante africano[/didascalia]

Anche a essere immigrati ci vuole fortuna. Almeno in Italia. Sembra essere questa la conclusione a cui bisogna giungere guardando le invettive del Governo e le reazione dei cittadini. Se, infatti, da un lato continuano gli attacchi di Matteo Salvini, vero leader di questo esecutivo, contro gli immigrati provenienti dall’Africa e questo porta la Lega a crescere sempre di più nei sondaggi, dall’altro nulla si dice riguardo ad altre forme di immigrazione, ad esempio quelle provenienti dall’oriente e, in particolare, dalla Cina. Ma a cosa è dovuta questa disparità?

Fra i vari attacchi, presentati come promesse, di Salvini c’è stato anche quello contro i cosiddetti “vucumprà”, ossia i venditori abusivi che, carichi di merce, attraversano chilometri e chilometri di spiagge nella speranza di vendere qualche braccialettino, qualche paio di occhiali imitazione di quelli dei più noti brand (e, quindi, prodotti nella fabbriche della criminalità organizzata) o qualche altro oggetto di dubbia utilità, che tuttavia a tutti noi fa piacere comprare, ovviamente trattando sul prezzo, mentre stiamo sdraiati a prendere il sole.

La proposta del Ministro dell’Interno riguarda, in particolare, la possibilità di multare chi acquista da questi venditori abusivi, in modo tale da disincentivare all’acquisto e quindi rendere sconveniente quest’attività. Tuttavia questa idea di Salvini è stata, almeno per il momento, quella con il minor eco e meno apprezzata dalle orde di cittadini pronti a sostenerlo per qualsiasi altra iniziativa. Probabilmente perché fa piacere a tutti comprare dai “vucumprà”, come li ha chiamati il capo dei leghisti? Chi non ha mai scorso fra la loro mercanzia un braccialettino, un pareo o dei racchettoni da voler acquistare? E quanti non hanno poi realmente comprato? Allora no, quell’immigrato ci fa comodo!

Così come ci fanno comodo gli immigrati provenienti dall’Oriente, in particolare dalla Cina, che garantiscono servizi e offrono prodotti a prezzi concorrenziali: il barbiere a 8 euro perfino a Milano, dove solitamente ne costa almeno 25; il bar tabacchi aperto 7 giorni su 7, che ci permette di acquistare le sigarette senza dover per forza impazzire con le macchinette automatiche; la manicure e la pedicure anche alle 9 di sera e a un prezzo inferiore rispetto a qualsiasi estetista che, invece, vorrebbe smettere di lavorare a orari umani; i grandi magazzini che vendono di tutto a poco prezzo e, ultimo ma non meno importante, il ristorante “all you can eat” che ci permette di strafogarci senza ritegno senza spendere una fortuna.

Poco importa che tutte queste attività commerciali mettano a rischio e, in molti casi, abbiano portato alla chiusura di concorrenti italiani che, avendo fondamentalmente un’altra cultura del lavoro e del tempo libero, si sono visti sbaragliare dall’arrivo di questi nuovi protagonisti del mercato. Poco importa che questo tipo di immigrazione, più ricca di quella africana e imprenditrice, crei dei rischi notevolmente maggiori all’economia italiana che se veramente spendessimo 35 euro per ogni migrante proveniente dall’Africa.

E non perché i cinesi siano brutti e cattivi, ma perché hanno una differente cultura del lavoro e dell’alternanza fra il tempo libero e quello lavorativo rispetto a quella raggiunta in Italia, in seguito a numerose lotte sindacali che, invece, altrove non sono ancora state combattute. Sta di fatto che, però, sarebbe necessario regolamentare queste attività affinché la concorrenza che giustamente vanno ad attivare nei confronti degli italiani parta dalle stesse basi e non risulti sleale, creando parecchie difficoltà all’economia italiana. Senza, ovviamente, considerare l’evasione fiscale, che tuttavia è un reato sanzionato nello stesso modo, seppur con qualche difficoltà in più, nei confronti delle attività commerciali cinesi e su cui gli italiani non sono molto sensibili (paghereste 5 euro in più il vostro taglio di capelli pur di versare i dovuti tributi?).

Il problema non è solo che costoro non arrivano sui barconi, visto che comunque nella maggior parte di casi la loro permanenza in Italia non è consentita dalla legge (le regole sull’immigrazione sono molto ferree e prevedono delle quote di persone che ogni anno possono trasferirsi in Italia da un determinato paese e a certe condizioni paradossali, quali ad esempio l’aver già trovato un lavoro prima di entrare in Italia) e soprattutto che anche loro si rivolgono a trafficanti di dubbia onestà per quanto riguarda il reperimento dei documento e il loro rientro in cina post mortem (Qui l’inchiesta di Repubblica del 2006) . Sicuramente influisce nella percezione comune il fatto che i cinesi piuttosto vivono in tanti all’interno di piccole case e difficilmente animano le città, risultando pertanto meno evidenti.

Ma il vero problema è che criticare il sistema di concorrenza cinese vorrebbe dire mettere a rischio quelle comodità di cui gli italiani giovano, mentre fra un nighiri e un uramaki rispondono male al venditore di rose che si avvicina al tavolo e mentre fanno le piega ai capelli a pochi euro (magari portandosi lo shampoo da casa perché “non si sa mai”) dalla loro parrucchiera cinese di fiducia si indignano per l’ultimo sbarco.

Così Salvini si guarda bene dal promettere una qualsiasi manovra politica per regolamentare queste attività che, essendo così popolari, finirebbero con il fargli perdere voti. La verità, allora, è che l’immigrato cinese ci fa comodo, quello africano no. Insomma, pure nell’essere immigrato ci vuole fortuna.

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