Mafia, Claudio Fava: «I giornalisti, a volte, sono liberi di rischiare senza poter scrivere»

Claudio Fava

Claudio Fava è uno che di giornalismo sulla mafia ne capisce. E non solo perché il padre, Pippo Fava, ci è morto per colpa di “questo pallino del giornalismo antimafia”. Ne capisce perché egli stesso di mafia e di antimafia ne ha scritto e ne scrive tuttora: ha raccontato, per i giornali e per le televisioni, molte guerre della Sicilia che lotta contro Cosa Nostra.

Ma non solo. Da Vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia, il rapporto fra giornalismo e mafia lo ha anche studiato, analizzato in ogni suo dettaglio. Quelli belli e quelli brutti.

«Quando mi è stata affidata dalla Commissione antimafia la relazione sul rapporto tra mafie e informazione – spiega – ho pensato che fosse lo strumento per affondare lo sguardo sulle cose tristi e opache di questi anni».

Da quella relazione e dalla sua esperienza come giornalista direttamente impegnato nel racconto del fenomeno criminale ne è nato un libro: “COMPRATI E VENDUTI – Storie di giornalisti, editori, padrini, padroni” (AddEditore).

Un’anteprima nella seguente intervista, che è già di per sé una denuncia su un mondo che non sempre funziona come dovrebbe!

Comprati e venduti di Claudio Fava

Qual è il livello di libertà di stampa in rapporto alla criminalità organizzata?

«I giornalisti sono liberi di rischiare e di scrivere, a volte di rischiare senza poter scrivere. A volte la libertà è declinata con altre più concrete e sostanziali libertà come quella di avere un editore che ti copre le spalle, avere una comunità di giornalisti che provi ad andare oltre il comunicato di solidarietà e magari decide di mettersi sulle sue spalle la storia per cui tu stai rischiando la pelle.

La libertà di stampa in sé è un tema astratto, generico, virtuoso e filosofico al tempo stesso. La possibilità concreta di un ragazzo di 30 anni di scrivere quello che vuole e che deve scrivere, dalle trincee calabresi o siciliane, a quelle campane, molto spesso è poggiata tutta sulle sue spalle, sulla sua tenuta morale e intellettuale, sul rigore con cui decide di interpretare il mestiere di giornalista.

Si sarebbe potuto fare qualcosa di più per questa generazione che non sempre ha un contratto in tasca, pagata pochi euro ad articolo, costretta a pagarsi di tasca propria le spese legali per procedimenti che arrivano dai peggiori ceffi del mondo. Sono loro che costituiscono buona parte dell’informazione libera e rigorosa sui temi della mafia: senza di loro probabilmente molte storie non le avremmo mai conosciute.

Non avremmo mai saputo delle debolezze del sindaco di Brescello che apprezzava i “modi cortesi” di una famiglia di ‘ndrangheta. Non avremmo mai appreso le ambiguità del sindaco di Sedriano prima che fosse arrestato e il comune fosse sciolto, non avremmo saputo di quanti santi si inchinano ai balconi dei mafiosi. Tutte storie raccolte da questi ragazzi senza contratto, freelance, che spesso vuol dire forestieri, senza patria».

A oggi in Italia ci sono editori che proibiscono di pubblicare qualcosa?

Possono accadere queste cose ma siamo di fronte a meccanismi più rozzi, meno sofisticati.

Ci sono giornali che sono stati costruiti per fare da ponte tra diversi universi culturali, legali e illegali; ci sono giornali in Campania la cui distribuzione è stata proibita in carcere perché erano diventato la voce della camorra ma ci sono anche giornali in cui la parola mafia per anni non è stata ammessa se non accompagnata da aggettivi positivi o nomi che non sono mai apparsi di fronte all’evidenza di sentenze passate in giudicato.

Non è tanto la censura: il punto è anche l’auto censura, il modo in cui educhi una generazione di giornalisti o alcune redazioni sul limite che possono darsi e su ciò di cui non possono parlare.

La storia del giornalismo italiano in tema di mafia racconta storie virtuose ma anche storie malinconiche come queste.

Qual è l’attenzione oggi dei lettori nei confronti di queste tematiche?

Abbastanza calda, direi, ma soprattutto grazie alle nuove tecnologie che sui media hanno tenuto il punto su alcune questioni e hanno continuato a chiedere una lettura attenta e consapevole, senza limitarsi al tabellino.

Altri più titolati organi di informazione si tirano su dalla sedia soltanto se c’è il morto eccellente, quando c’è l’odore del napalm o quando è accaduto qualcosa di irreparabile.

In attesa di cose irreparabili, le mafie, però, continuano a scavare sotto terra le loro trame di protezione, impunità ed egemonia sul territorio e questo vale meno di un titolo e di una notizia.

C’è interesse delle istituzioni, specie quelle antimafia, a che i giornali parlino di mafie?

La commissione antimafia ha stilato un rapporto, a cui fa riferimento il libro, che per la prima volta fotografa la relazione tra informazione e criminalità organizza senza fare sconti a nessuno, cioè non limitandosi come sempre accade all’elenco dei morti ma raccontando i vivi.

Se il circuito è abbastanza virtuoso, il giornale tradizionale si rende conto che la qualità e la quantità dell’informazione è fondamentale, ma tutto questo si deve incrociare con politiche virtuose.

Faccio un esempio: possiamo chiedere ai giornalisti di parlare bene e ad alta voce di mafie, ma se poi un migliaio di aziende confiscate alla mafia rischiano il fallimento perché lo Stato non è in condizione di organizzare le cose come si deve e l’Agenzia per i beni confiscati si deve assumere tutto l’onere della sfida della confisca, allora servirà a poco il giornale.

Un tema spinoso è quello del tono: quale tono deve mantenere il giornalista che parla di mafia?

Il giornalista non deve educare, non deve fare pedagogia e non ha bisogno di alzare la temperatura del tono: la temperatura sta nelle cose di cui si scrive.

Evitando qualche maiuscola di troppo e qualche retorica eccessiva, trovando prose e ragionamenti più asciutti, facciamo un lavoro migliore perché c’è anche una retorica autoreferenziale nel racconto della mafia e dell’antimafia.

Dobbiamo farci carico della distrazione con cui è stata trattata la mafia, ma anche dell’esaltazione con cui è stata raccontata qualunque ipotesi di antimafia. Dobbiamo pretendere prose più asciutte e consapevoli: meno punti esclamativi e più punti interrogativi.

C’è il rischio di spettacolarizzare la mafia?

Direi di no. La mafia fa spettacolo a prescindere da come viene raccontata. Il problema non è la rappresentazione che se ne fa con i giornali, il cinema e la televisione, ma la presentazione che la mafia dà di se stessa perché è quella che produce.

Le interviste agli esponenti delle mafie hanno fatto sempre clamore: è giusto dare la parola ad ex mafiosi, collaboratori di giustizia o personaggi che gravitano intorno alle mafie?

Io nella mia vita ho intervistato il generale Noriega quando era considerato il peggior soggetto dell’umanità, il braccio destro di Saddam Hussein, il colonello Roberto D’Aubuisson, il mandante dell’assassinio di Don Romero in Salvador.

Il punto non è intervistarli o meno, ma è come lo fai. Al colonello D’Aubuisson, la prima domanda che feci fu: «Mi scusi colonnello, l’ha ammazzato lei Don Romero?».

Puoi intervistare il peggior mafioso ma bisogna vedere se lo fai con accondiscendenza e compiacimento, accettando di trattare con lui alcuni argomenti da escludere, oppure lo fai come si fa in questo lavoro, senza fare sconti.

Ai giovani cronisti io suggerirei di andare a guardare come Peter Arnett, ostaggio in Iraq e unico giornalista rimasto a Baghdad durante l’invasione, intervistò Saddam Hussein: fu l’unica volta in cui sparì il sorriso dalla faccia di Saddam di fronte a domande che non erano villane, ma erano domande fatte con la schiena dritta.

Articolo realizzato in collaborazione con Lorena Cacace

Impostazioni privacy