In Campania da oltre 2mila anni si muore di caporalato

Ci sono avvenimenti che non bisognerebbe mai dimenticare: hanno sconvolto la cronaca e la serenità dell’opinione pubblica (magari per la loro crudeltà, efferatezza e brutalità), eppure dopo solo qualche anno passano all’oblio della memoria. Serve sempre un nuovo fatto di cronaca perché lo spettro di quell’avvenimento possa rialeggiare sulle pagine dei giornali e nella memoria dei lettori, ma soprattutto perché si avverta la paura che quello non sia un fatto isolato quanto un fenomeno costante.

Se due immigrati, siano essi clandestini o regolari, vengono sparati perché decidono di non sottostare alle dittatoriali e schiaviste leggi del caporalato dovrebbe già di per sé farci indignare e invogliare gli altri disperati arrivati in Italia in cerca di una qualche fortuna, ma non solo loro, alla rivolta. Ancor di più se l’agguato avviene a Castel Volturno, nel casertano, dove soltanto sei anni prima si era consumata una delle più sanguinose stragi ai danni proprio di quegli schiavi.

Il 13 luglio 2014, infatti, due cittadini della Costa d’Avorio sono stati feriti a colpi d’arma da fuoco da due italiani, padre e figlio. È stato necessario questo nuovo crimine perché ci si ricordasse che, proprio in quella zona, il 18 settembre del 2008 sei immigrati africani furono sterminati dai Casalesi, nella cosiddetta “Strage di San Gennaro”, perché si erano ribellati alle logiche del caporalato. Quelle secondo cui gli immigrati servono solo per lavorare nei campi e nelle discariche abusive, ma per il resto non hanno il riconoscimento di umanità.

Gli immigrati si raduno in massa al mattino in quelle zone dove sanno che arriverà il “caporale” che lì sceglierà di giorno in giorno per l’impressione che si fa di ciascuno di loro, o meglio per quello che più gli serve per portare a compimento il lavoro. Non sanno quanto prenderanno, ma di sicuro sarà poco e di sicuro sarà in nero: senza assicurazione lavorano in condizioni disumane, ma tanto se ci restano il loro cadavere sarà sciolto nell’acido o nascosto nel calcestruzzo. Rinunciano alla loro dignità per sopravvivere e magari per riuscire a mandare due soldi alle famiglie che li aspettano, vivi o morti, nel loro paese di origine.

Noi tutto questo lo sappiamo, ma facciamo finta di dimenticarlo. E così da oltre duemila anni permettiamo che il caporalato esista e che ogni rivolta venga sedata con il sangue: come oggi e nel settembre del 2008 a Castel Volturno, ma perfino come avvenne nel 71 a. C. in provincia di Avellino (precisamente nell’Alta Valle del Sele, tra i territori attuali dei comuni di Caposele e Senerchia ). Lì, sempre in Campania (anche se all’epoca era Lucania), l’esercito dell’impero romano sterminò oltre 60mila schiavi che, guidati da Spartaco, chiedevano di essere riconosciuti come umani. Il caporalato di oggi nient’altro è che un’evoluzione, ufficiosa ma non certo più umana, dalle schiavitù.

E allora non si può non concordare con chi di mestiere faceva il comico ma non sempre aveva voglia di di ridere, soprattutto davanti a queste barbarie: “L’umanità – diceva Totò nel film Siamo uomini o caporali? – io l’ho divisa in due categorie di persone: uomini e caporali. La categoria degli uomini è la maggioranza, quella dei caporali per fortuna è la minoranza. Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare tutta la vita come bestie, senza vedere mai un raggio di sole, senza la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama. I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano”.

“Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno – continuava il principe della risata e forse non solo – li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza avere l’autorità, l’abilità o l’intelligenza, ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque. Dunque, dottore, ha capito? Caporali si nasce, non si diventa: a qualunque ceto essi appartengano, di qualunque nazione essi siano, ci faccia caso: hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi, pensano tutti alla stessa maniera”.

Lo stesso Totò quindi concludeva: “Più conosco gli uomini e più amo le bestie, amico mio”.

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