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Paolo Borrometi, giornalista nel mirino dei mafiosi

Fanno bene a prenderti a schiaffi”. “Come sta facendo il suo lavoro le posso dire che non ci sta piacendo”. “Ti scippo la testa. Anche dentro il commissariato”. Sono le ultime minacce arrivate a Paolo Borrometi, giovane giornalista preso di mira dalla mafia solo perché fa il suo lavoro. 32 anni, di Modica (Ragusa), Borrometi ha raccontato nei suoi articoli la criminalità della sua provincia e i loschi traffici che interessano il porto di Gioia Tauro, ricevendo continue minacce e intimidazioni. Il 16 aprile 2014 è stato vittima di un agguato in puro stile mafioso, con pugni e calci, in seguito al quale è stato costretto a un intervento chirurgico. La sua vita è in costante pericolo e anche il trasferimento a Roma, per allontanarlo da un ambiente pericoloso, non sembra essere servito.

Le ultime minacce sono arrivate da Anna Maria Brandimarte, figlia di Michele, boss della ‘ndrangheta ucciso in provincia di Ragusa il 14 dicembre 2014. “Non scrivere, hai capito?”; “Fai la vittima quando poi ti picchiano”. La donna ha gridato contro di lui tutto il suo odio solo perché Borrometi aveva pubblicato la Relazione della Dia 2014 sulla presenza della ‘ndrangheta in Calabria e in particolare nel porto di Gioia Tauro. Sul suo profilo Facebook, il giornalista ha pubblicato la schermata della conversione. Colpiscono le parole della Brandimarte, ma ancora di più la sua risposta: “Continuerò sempre per far capire alle persone la realtà”.

La sua storia è simile a quella dei tanti giornalisti minacciati dalla criminalità organizzata in tutta Italia, un esercito di penne al servizio della verità. L’ultimo rapporto del Comitato su Mafia, giornalisti e mondo dell’informazione, indica che nel 2014 ci sono stati oltre 400 atti intimidatori, con un aumento del 10 per cento rispetto al 2013. Non solo al Sud: oggi le minacce arrivano anche in Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna, dove i giornalisti stanno facendo luce sull’intreccio tra mafie e potere politico-economico.

Paolo Borrometi, come i suoi colleghi, non si arrende e va avanti per la sua strada. Grazie alle sue inchieste ha svelato il retroscena di malaffare che governava il comune di Scicli, quello del commissario Montalbano: ora l’amministrazione è stato sciolta e il sindaco è indagato per concorso esterno.

Borrometi ha iniziato a occuparsi di criminalità quasi per caso, quando si appassionò al caso di Ivano Inglese, un giovane incensurato di 32 anni, freddato senza motivo nella sua terra. Quel muro di omertà lo ha sconvolto: lo ha raccontato anche a noi in un articolo pubblicato a poca distanza dall’aggressione subita nell’aprile 2014. Insulti, minacce scritte sui muri, la porta di casa data alle fiamme, calci e pugni: nulla lo ha fermato.

Da allora ha continuato a scavare per cercare la verità e portare alla luce il malaffare che cresce grazie al silenzio colpevole delle istituzioni. Dopo le continue minacce e l’agguato, è stato trasferito a Roma per essere protetto: anche nella Capitale ha continuato a fare il suo mestiere e, come da manuale, sono piovute altre minacce.

A luglio 2015 Gionbattista Ventura, esponente della famiglia mafiosa Ventura, di Vittoria (Ragusa), gli scrive su Facebook. “Basta, non rompere più la minchia (…) pirchi ti scippu a testa merdoso che non sei altro”. Ventura, fratello del capoclan Filippo, era stato al centro di diversi articoli che svelavano le attività mafiose della famiglia, come la gestione delle pompe funebri, intestata a Padre Pio.

Ora la Polizia sta indagando sulle minacce e anche il presidente del Senato Pietro Grasso ha voluto esprimergli la sua solidarietà. Quello che conta è che Paolo e tutti gli altri colleghi possano continuare a fare il loro lavoro senza doversi preoccupare per la loro vita. Ne va (anche) della dignità di questo Paese.

Lorena Cacace

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