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Violenza e mass media, la sottile linea rossa di un rapporto conflittuale

Le immagini dell’arresto del presunto killer della strage di Capodanno hanno fatto il giro del mondo: il volto tumefatto di Abdulkadir Masharipov, questo il nome, è finito sulle prime pagine di tutti i media, noi compresi. Quelle fotografie hanno suscitato qualche polemica e soprattutto hanno fatto nascere dei dubbi: è giusto pubblicare la foto di un uomo ferito e picchiato anche se è un terrorista reo confesso? Siamo sicuri che l’esposizione continua alla violenza non ci abbia reso insensibili? Perché siamo continuamente assetati di “sangue”, come media e come lettori? Quanta forza ha, se ce l’ha, un’immagine violenta nella società dell’immagine per eccellenza?

Testi a cura di Lorena Cacace e Mauro Di Gregorio

Stiamo per addentrarci su un terreno rischioso ed è per questo che abbiamo bisogno di alcuni punti fermi. Il primo è che viviamo nell’era della comunicazione globale. Se nel ‘400 la stampa cambiò il mondo, nel XXI secolo lo hanno fatto internet e l’avvento degli smartphone. Tutti i vari studi che si occupano di nuovi media concordano su un dato: quasi la metà della popolazione mondiale (7,2 miliardi di persone nel 2015) ha accesso a internet (facendo una media siamo a oltre 3 miliardi di persone connesse). La percentuale è destinata a salire: nel 2050 si stimano in 5 miliardi le persone connesse, con gli smartphone che supereranno i pc come strumento di accesso.

Tutti questi numeri servono per confermare il potere che ognuno di noi ha letteralmente nelle proprie mani ogni giorno: con un cellulare possiamo accedere a (quasi) tutto il materiale pubblicato online e noi stessi possiamo produrre contenuti, di qualunque genere.

Altro punto fermo nel nostro avventurarci, novelli Dante, in questa “selva oscura”, è che viviamo nella società delle immagini. Fin dall’avvento del cinema e ancora di più con la televisione, studiosi di ogni genere hanno dedicato la loro attenzione sul capovolgimento del mondo della conoscenza. Prima della tv era la parola scritta a dominare e a fare cultura. Oggi sono soprattutto le immagini a comunicare. L’avvento dei social ha solo amplificato un processo in corso da decenni: se ai nostri antenati serviva leggere qualcosa per crederci (e quindi conoscere), noi abbiamo bisogno di vederla.

Detto questo, possiamo entrare nella landa del rapporto tra violenza e media. Le immagini dell’arresto del presunto killer di Capodanno sono informazione o voyerismo? È necessario divulgare le immagini di Aylan, Mohammed, o del bambino di Aleppo, o i media lo fanno per avere visibilità? Entrambe le cose.

Mostrare un’immagine shock: perché sì

A volte l’ideologia e la filosofia da dopocena devono lasciare il campo alle necessità pratiche. Una spada tiene l’altra nel fodero, soprattutto se è già sporca di sangue. Mostrare al mondo l’immagine di un nemico ucciso è il modo migliore per far cessare dubbi sulla sua eliminazione o per convincere alla resa i suoi seguaci, risparmiando così centinaia di vite umane. Due esempi per tutti: quando Osama Bin Laden fu ucciso gli USA scelsero di non mostrare il suo cadavere adducendo una giustificazione molto precisa: il colpo alla testa lo aveva deturpato in maniera così grave che l’immagine avrebbe indignato i suoi seguaci e li avrebbe istigati a compiere attacchi kamikaze. Scelta comprensibile, ma forse non opportuna: per settimane molti gruppi integralisti legati ad al Qaeda considerarono una bufala l’omicidio di Bin Laden.

Gli USA fecero una scelta diversa quando nel 2003 uccisero Uday e Qusayy Hussein, i figli di Saddam. I loro corpi deturpati furono identificati solo grazie ai calchi dentari. Ebbene, i volti dei due ragazzi furono ricostruiti pezzo per pezzo dai migliori chirurghi plastici e furono esposti agli operatori delle TV al fine di dimostrarne la morte. Questo contribuì a convincere centinaia di soldati iracheni a cedere le armi.

Lo stesso discorso si applica alle recenti foto del terrorista di Istanbul, le cui immagini col volto tumefatto e insanguinato sono state diffuse subito dopo l’arresto. Non si può invitare un terrorista alla resa, citofonandogli e consentendogli di cambiarsi con calma, raccogliere gli oggetti personali e consegnarsi quando si sente pronto. Un terrorista sa di essere braccato e la sua casa va considerata una trappola mortale imbottita di esplosivo: bisogna piombargli addosso con decisione e al minimo accenno di resistenza deve essere neutralizzato, anche spaccandogli il setto nasale. E le sue foto devono essere diffuse, per tranquillizzare l’opinione pubblica.

Ciò che non deve essere mostrata, ma nemmeno realizzata, è l’umiliazione del vinto e la sua deumanizzazione: i poliziotti che hanno arrestato Abdulgadir Masharipov gli hanno schiacciato la testa sotto agli stivali e hanno diffuso le foto sui social. Un atto non solo turpe e non necessario, ma un’ulteriore istigazione alla vendetta per i miliziani dell’Isis.

La semiotica delle immagini

Un cadavere non è un cadavere, una pozza di sangue non è una pozza di sangue. Il contesto, le modalità e le intenzioni di chi pubblica una foto definiscono la sua valenza. Il COSA viene influenzato dal COME, per citare due delle stelle polari alle quali si rifà la narrazione giornalistica. Facciamo un esempio pratico ricordando la foto di Aylan. Qualcuno si è interrogato sull’opportunità di mostrare l’immagine di un minore morto. Altri invece si sono domandati perché sia lecito mostrare Aylan e non anche le foto dei bambini sfracellati sotto le bombe in Siria.

Il perché è presto detto: il fotografo che ha consegnato Aylan alla Storia ha trasformato il suo corpo in una narrazione semiotica: il bambino sembra dormire, riverso a faccia in giù. Il corpo non è ancora corrotto, le guance sono paffute, la carnagione è ancora quella di un bimbo sano. La magliettina rossa e i pantaloncini sono quelli di un bimbo vispo della sua età. Aylan è l’immagine della vita. Sembra che dorma, ma in una posizione innaturale, faccia in giù nelle gelide onde del bagnasciuga. In un’altra foto il piccolo viene portato all’asciutto da un poliziotto turco, che lo solleva dolcemente come se non volesse svegliarlo. Le protagoniste di questa foto sono l’assenza della vita in Aylan e l’emozione di spreco e pena che prova chi la guarda. L’emozione dello spettatore è parte integrante dell’opera.

Le immagini fanno la nostra storia

Proprio perché società dell’immagine e della comunicazione, oggi sono le immagini a fare la nostra storia. Il secondo dopoguerra, la guerra del Vietnam, la caduta del muro di Berlino, quella di Ciausescu, piazza Tiananmen, l’11 settembre: sono alcuni degli eventi storici più importanti del XX e XXI secolo che conosciamo per immagini.


Allo stesso modo, sono diventate iconografie dei nostri tempi anche le immagini dell’impiccagione di Saddam Hussein o quelle della morte di Muammar Gheddafi, diventate, a loro modo, simboli di quanto hanno rappresentato in vita i due dittatori. Non a caso, gli Stati Uniti di Barack Obama scelsero di non mostrare alcuna immagine dell’uccisione di Osama Bin Laden, dandogli sepoltura (secondo il rito musulmano) in mare aperto.


Per conoscere abbiamo bisogno di foto e video perché ormai fanno parte del nostro modo di vedere il mondo. Il caso del presunto killer di Istanbul e le sue immagini con il volto tumefatto non fa eccezione: le foto sono state scattate per confermare la sua cattura alla Turchia e al mondo intero, un messaggio che Recep Tayyp Erdogan ha lanciato ai suoi avversari e ai prossimi terroristi: fate pure, tanto vi prenderemo.

Un altro esempio, forse più chiaro, è il caso di Stefano Cucchi. La sorella Ilaria ha voluto mostrare le tremende immagini del suo corpo martoriato perché la gente sapesse di cosa si stava parlando: non di un “drogato”, come insiste nel dire il senatore Carlo Giovanardi, ma un ragazzo martoriato dalle percosse, morto mentre era sotto la custodia dello Stato. Solo mostrando quelle foto, l’opinione pubblica ha capito la gravità della cosa.

Tutto vero, allora perché pubblicarle? Perché i media raccontano la realtà (o almeno ci provano) ed è per questo che, ogni giorno, hanno a che fare con immagini violente: è la vita a esserlo. Raccontare una guerra, come quella in Siria, senza l’ausilio di foto e video, è inutile e anzi dannoso: le immagini arriverebbero comunque al pubblico, tramite i social network, ma non sarebbero filtrate, controllate e verificate da chi lo fa per professione.


La società delle immagini violente

Il far parte della società della comunicazione globale (per immagini) ha un altro lato della medaglia: siamo bombardati da foto e video, spesso non filtrati, che rischiano di assuefarci alla violenza. Il rischio esiste, certo, ma chiunque lavori con le immagini crude delle guerre potrà dirvi che non ci si abitua mai alla morte e alla sua rappresentazione.

Il motivo è presto detto: tutti noi abbiamo quella che la scienza definisce empatia, la capacità cioè di porsi nella situazione di un’altra persona o, come dice la Treccani “di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro”. In altre parole, come essere umani, siamo solidali con gli altri perché ne va anche della nostra sopravvivenza come specie umana.

Le immagini forti ci disturbano perché inconsciamente pensiamo che potremmo essere noi quelli delle foto, o magari un nostro caro. Tutto questo però rischia di non bastare.

In molti, in occasione dell‘uccisione del killer di Berlino a Sesto San Giovanni, hanno pensato che i due poliziotti lo avessero fermato perché rientrava nello stereotipo dell’immigrato pericoloso, immagine che i media e parte della politica hanno creato per gli stranieri nel nostro paese (specie se di religione musulmana). Non è escluso a priori, ma conoscendo come lavorano le forze dell’ordine, sarebbe un atteggiamento più che normale: i poliziotti fermano sempre chi ha un aspetto sospetto e mai come in quel caso avevano ragione.

Il rischio di una sovraesposizione esiste, come dimostrano le polemiche sui giovani poliziotti di Sesto. Quando ci fu la strage di Nizza, le immagini amatoriali dei corpi martoriati delle vittime finirono su Youtube in meno di un’ora, tanto che la Polizia dovette chiedere di non pubblicarle, provvedendo a cancellarle. Se esiste il rischio, cosa possiamo fare?

Di certo non smettere di pubblicare immagini forti e spesso cariche di significato simbolico, in grado di smuovere le coscienze. Non bisogna però neanche smettere di educare ed educarsi, farsi una propria coscienza critica, studiare, leggere, conoscere.

Il compito dei media è raccontare la realtà, scegliendo cosa mostrare in base al significato dell’immagine più che alla presenza di sangue. Ai lettori spetta il compito di capire cosa voglia raccontare quella stessa immagine, usando intelligenza ed empatia: spesso la violenza è più negli occhi di chi guarda.

Redazione

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