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Categories: Cronaca

Quattro giornate di Napoli: dov’è finito oggi quell’entusiasmo?

Forse anche per Gennarino quello era soltanto un gioco: ai bambini, si sa, piace giocare alla guerra. D’altronde giocare deve essere la principale preoccupazione di un dodicenne, qualsiasi sia il momento e il luogo in cui è nato. E allora perché dovremmo pensare che quello per Gennaro Capuozzo non fosse soltanto un gioco come tutti gli altri? Forse perché c’è morto o forse perché in quel tempo a Napoli e in tutta Italia nemmeno i bambini avevano la voglia e il tempo di giocare.

È il 27 settembre 1943 quando i napoletani, oggi famosi per la loro presunta inerzia e poca voglia di fare, decidono di non aspettare che arrivino gli americani a salvarli dell’occupazione nazifascista e scendono in piazza, imbracciano le armi e il 30 settembre, dopo quattro giornate di rivolte, si salvano da soli. Sì, il 30 settembre del 1943 i napoletani si salvarono da soli!

In quattro giornate i giovani napoletani mettono a ferro e fuoco la città affrontando perfino l’esercito tedesco. Dalla collina del Vomero partono, guidati dal Professor Antonio Tarsia in Curia e da Adolfo Pansini, gli studenti e i docenti del liceo Sannazaro, che dopo la cascina Paglialone divenne quartier generale dei rivoltosi. Ma da tutta la città insorgono gli scugnizzi, i ragazzi che senza casa, senza famiglia e senza educazione abitano la città. Fra questi c’è Gennarino, un bambino di soli dodici anni che, volendo sfruttare la sua gracilità, decide di mettersi in prima linea per fermare i carri armati nemici. Alla fine, il 29 settembre, stramazzerà al suolo colpito dalla pioggia di proiettili e diventerà il simbolo di quella rivolta.

Quella rivolta ha coinvolto e unito, senza esclusioni, l’intera popolazione che, dando grande dimostrazione di coraggio, ha spinto anche altre città d’Italia (ad esempio la ora efficientissima Brescia) a ribellarsi da sole, dimostrando che tutti insieme potevamo farcela a sconfiggere l’invasore. Napoli e i napoletani, per una volta, diventano esempio per tutti e motore trainante del Paese verso la salvezza.

Ma oggi che Napoli ha forse ancora più bisogno di allora della salvezza, dov’è finito quell’entusiasmo? Interpretando il sentimento e il pensiero di chi all’epoca prese parte alle Quattro Giornate, il cantante Eugenio Bennato scriveva nel Canto dello Scugnizzo: “Se chi ci comanda non ci piace, non restiamo zitti e alziamo la voce”. Perché ora ci piace chi ci comanda? La camorra da un lato e la politica inefficiente e corrotta dall’altro, o forse entrambe dallo stesso lato!

Che fine hanno fatto gli scugnizzi? Possibile che a Napoli non vi sia neanche più un Gennarino che a soli dodici anni decide di voler rischiare la vita per difendere la propria città? Possibile che la storia, per come è andata, ci ha talmente svilito che davvero crediamo di non poter più alzare la voce se chi ci comanda non ci piace? Eppure abbiamo già dimostrato, soprattutto a noi stessi, di essere capaci di rimboccarci le maniche e riprenderci la nostra città. E, insieme a lei, i diritti che ci spettano.

Fabrizio Capecelatro

Fabrizio Capecelatro è stato un redattore interno di Nanopress fino al 2018. Si è occupato di politica e cronaca, con particolare riguardo a tematiche incentrate su criminalità organizzata e camorra. Su temi di attualità e di cronaca criminale ha scritto anche su Pourfemme.

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