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Scandalo Mose, con le mazzette Venezia rubava gli appalti al Sud

Se lo scandalo Mose sarà realmente peggio di Tangentopoli, così come hanno preannunciato gli inquirenti, soltanto la storia giudiziaria potrà dirlo. Non sono neanche così convinto che bastino il coinvolgimento di nomi ancora più grossi, tangenti ancora più ricche e un maggiore numero di indagati per rendere uno scandalo migliore o peggiore di un altro: ogni volta che un politico ruba dovrebbe essere uno scandalo enorme, almeno così avviene in tutto il resto del mondo.

In Italia, però, ci siamo ormai talmente tanto abituati alla disonestà legalizzata che pochi sono gli scandali che riescono a indignarci davvero: quasi come se l’indignazione sia direttamente proporzionale a quanti hanno rubato, quanto hanno rubato e soprattutto a chi hanno rubato. Da Mani Pulite in poi, infatti, lo scandalo che ci ha forse coinvolto di più emotivamente è stato quello di politici e imprenditori che ridevano pensando ai soldi (mazzette comprese) che avrebbero intascato con la ricostruzione dopo il terremoto de L’Aquila.

Anche nello scandalo Mose c’è un aspetto che mi preoccupa più degli altri, perché, se non si inverte la tendenza del “Robin Hood alla rovescia”, l’Italia non si riprenderà mai. Ve lo ricordate il simpatico ladruncolo che derubava i ricchi di passaggio nella foresta di Sherwood per sfamare i poveri? In Italia, ormai da troppo tempo, succede l’esatto opposto: i ricchi derubano i poveri che così diventano sempre più poveri e poi li appellano pure come “pezzenti” o addirittura “zavorre”.

Secondo la ricostruzione della Procura di Venezia, grazie alle mazzette ben quattrocento milioni di euro destinati alle aree sottosviluppate del Sud Italia sono stati dirottati al Nord per la costruzione del Mose, la barriera idraulica di protezione per Venezia. I veneti, infatti, sempre grazie alle mazzette, possono contare sul sostegno di santi in paradiso (o semplicemente a Palazzo Chigi) che i terroni, così come direbbero i veneti, non hanno.

Nel 2010, infatti, il Consorzio Venezia Nuova aveva bisogno di alcune centinaia di milioni per far proseguire la costruzione della diga, per cui aveva già percepito dei fondi statali ma che evidentemente non erano risultati sufficienti: probabilmente neanche loro si aspettavano di dover pagare tutte quelle mazzette e quindi il capitale iniziale non era risultato sufficiente.

Una norma sulla distribuzione dei fondi del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica vincolava però al Sud, notoriamente più arretrato come infrastrutture, l’85% dei soldi alle aree sottosviluppate del Mezzogiorno e il restante 15% al Nord, dove la situazione non sarà perfetta ma di sicuro è migliore di quella meridionale.

Il principio alla base di quella norma non è solo che appunto il meridione è più arretrato rispetto al settentrione e quindi è moralmente giusto destinare più fondi al Sud per permettergli di riprendersi, ma è soprattutto che, se non si arriva a una situazione di più o meno parità fra le due zone economiche in cui è diviso lo stivale, l’intera Italia non si riprenderà mai.

Al Consorzio Venezia Nuova, però questo non interessa: interessano solo i 400 milioni necessari per andare avanti con la costruzione del Mose. Ma 400 milioni sono troppi e – scrive il gip di Venezia – «avrebbero sforato tale percentuale e non sarebbero stati registrati dalla Corte dei Conti».

In teoria non sarebbero possibili deroghe, di nessun tipo. Ma non per chi ha pagato tutti quei soldi di tangenti e così si attiva il Presidente del Consorzio in prima persona. Il 29 aprile 2010 Giovanni Mazzacurati contatta Gianni Letta, sottosegretario presso la Presidenza del Consiglio di Silvio Berlusconi, per studiare la strategia giusta e cambiare la norma che tiene i fondi vincolati al Sud.

Intanto si muove anche l’intermediario Roberto Meneguzzo, capo di una finanziaria milanese con sede operativa a Vicenza (la Palladio Corporate Finance Spa) che arriva direttamente a Marco Milanese (ve lo ricordate, vero?), consigliere dell’allora Ministro dell’Economia Giulio Tremonti, famoso per essere stato l’uomo chiave dell’alleanza fra il PdL e la Lega Nord.

Insomma a Mazzacurati non si può dire di no: gli alleati di Governo del Carroccio, con all’epoca un peso importante nella maggioranza, non aspettano altro che vengano tolti ancora un po’ soldi al Mezzogiorno e il PD starà zitto perché anche loro hanno intascato le mazzette di Mazzacurati.

E così il 13 maggio 2010, con una velocità degna dei Paesi del Nord Europa, il Cipe emana una delibera (la n° 31/2010) in cui «si stabilisce che il residuo disponibile del fondo infrastrutture, 1.424,2 milioni di euro, sia assegnato…ad una serie di opere prioritarie, tra le quali opere di difesa idraulica in ambiti urbani di rilevanza sovranazionale». Indovinate un po’ tra quale rientra? Ovviamente il Mose!

Manca solo un piccolo intervento del Ministero dell’Economia per introdurre una deroga rispetto all’85% dei fondi per le aree sottosviluppate del Sud. E allora rientra in gioco Milanese (di cognome e di fatto) e la delibera viene puntualmente approvata il 25 maggio 2010 dal Consiglio dei Ministri. Ma in realtà Mazzacurati e i veneti dormivano sonni tranquilli già dalla notte prima, visto che Marco Milanese si è preoccupato di avvertire il mediatore Meneguzzo già il 24 maggio con un SMS che recitava: «Ciao Roberto…al consiglio di domani sera c’è la norma per il Mose! Avverti il ns amico e tranquillizzalo!!!!».

E poi siamo noi meridionali i geni della truffa?

Fabrizio Capecelatro

Fabrizio Capecelatro è stato un redattore interno di Nanopress fino al 2018. Si è occupato di politica e cronaca, con particolare riguardo a tematiche incentrate su criminalità organizzata e camorra. Su temi di attualità e di cronaca criminale ha scritto anche su Pourfemme.

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