La rivolta anti-pizzo a Bagheria ha dato i suoi frutti dopo che 36 commercianti hanno trovato il coraggio di reagire e ribellarsi alle richieste degli estorsori. Sono 22 i provvedimenti cautelari nei confronti di capi e gregari del mandamento mafioso della città in provincia di Palermo, accusati, a vario titolo, di associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione, sequestro di persona e danneggiamento a seguito di incendio.
Grazie alle dichiarazioni fornite da 36 tra imprenditori e commercianti, i carabinieri del comando provinciale di Palermo hanno potuto tracciare le coordinate del racket nella zona, che andava a colpire e danneggiare praticamente qualsiasi attività economica locale perché i mafiosi alla ricerca di pizzo colpivano a tappeto. Qualsiasi tipo di esercizio serviva a fare cassa, e così le visite degli estortori, per oltre un decennio (almeno dal 2003 al 2013) non hanno risparmiato negozi di mobili e di abbigliamento, attività all’ingrosso di frutta e di pesce, bar, sale giochi, centri scommesse, anche se il settore edilizio era in un certo modo ”privilegiato”. Sono state in tutto cinquanta le estorsioni scoperte grazie alle confessioni di 36 imprenditori locali. A finire in carcere sono stati 22 presunti estorsori, con un’operazione portata avanti dai carabinieri del Nucleo investigativo di Palermo con il coordinamento della Direzione distrettuale antimafia.
”È la breccia che ha aperto la strada per assestare un nuovo colpo a Cosa nostra, segno che i tempi sono cambiati e che imprenditori e commercianti finalmente si ribellano”, spiega ai cronisti il colonnello Salvatore Altavilla, comandante del Reparto operativo dei carabinieri di Palermo, che ha commentato l’ultimo blitz dell’Arma contro la cosca di Bagheria. A raccontare di estorsioni andate avanti per decenni, e cominciate quando in Italia ancora non c’era nemmeno l’euro, ma si pagava con la lira (e la cifra richiesta dai mafiosi era in media di tre milioni al mese) è stato dapprima un imprenditore che pagava dall’inizio degli Anni Novanta e che, dopo aver dovuto chiudere l’attività e vendere la casa, ha deciso di parlare. Le dichiarazioni del pentito Sergio Lamia hanno fatto il resto.
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