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Perché vale ancora la pena andare nello spazio?

[didascalia fornitore=”altro”]Foto di Vadim Sadovski / Shutterstock.com[/didascalia]

Oggi, 12 aprile, si celebra in tutto il mondo la Giornata Internazionale dei viaggi dell’uomo nello spazio, istituita dall’Onu nel 2011, nel 50esimo anniversario del primo volo umano oltre l’atmosfera terrestre. Pioniere è stato Jurij Gagarin, ai tempi della Guerra Fredda tra Stati Uniti d’America e Unione Sovietica: cosmonauta e aviatore, il 12 aprile 1961 ha effettuato il primo volo orbitale con un essere umano a bordo, della durata di 108 minuti. Un’impresa i cui risvolti sono andati oltre la dimostrazione di potere dell’URSS, che ha avuto come vero trionfatore l’essere umano su tutto e tutti. Ma dopo 57 anni ha ancora senso investire patrimoni per volare nello spazio, al netto di decaduti –almeno apparentemente- intenti bellici o politici? A guardare le cifre di alcune missioni, il capogiro è dietro l’angolo: quali sono i benefici concreti dei viaggi spaziali confrontati con i costi che richiedono alla collettività?

Dove siamo arrivati oggi

Dal 1961 di acqua sotto i ponti ne è passata; senza Gagarin, però, probabilmente non avremmo mai visto nessun Paolo Nespoli, né alcuna Samantha Cristoforetti, nessun astronauta di alcuno Stato assaggiare la sensazione di abitare una vera e propria “casa spaziale” come l’ISS, la Stazione Spaziale Internazionale. Questo laboratorio volante orbita quotidianamente attorno al globo, a soli 400 km sopra le nostre teste: frutto della cooperazione internazionale dei maggiori centri di ricerca spaziale, è considerato uno strumento d’elezione per lo studio e la ricerca tecnologica e scientifica per un vastissimo campo di applicazioni.
Ultimamente, però, i grandi enti di ricerca come la NASA e l’ESA preferiscono investire in missioni interplanetarie e unmanned, ovvero prive di uomini a bordo; questo perché addentrarsi nello spazio profondo è un’impresa tanto affascinante quanto rischiosa per un equipaggio di astronauti. Le sonde controllabili da terra, senza la necessità della presenza umana on-board, permettono di esplorare alcune zone tra i corpi celesti più remoti che altrimenti verrebbero escluse dalla ricerca.
Certo è che a guardare le cifre “stellari” richieste da ogni ambizioso progetto, viene da chiedersi se valga veramente la pena investire tanto denaro pubblico nell’esplorazione spaziale.

Diamo i numeri: i costi galattici delle missioni

È di pochi mesi fa la notizia della riaccensione dei propulsori di Voyager 1, la sonda NASA che vanta il primato per la distanza maggiore dal nostro pianeta: 21 miliardi di km, circa 55.000 volte la distanza Terra-Luna. Lanciata nel 1980, la sonda ha raggiunto i confini del Sistema Solare per studiare le condizioni dello spazio interstellare in totale assenza di particelle solari. Costo della missione per gli USA? 3.6 miliardi di dollari, una cifra che fa girare la testa.
Vi sembra troppo? Niente paura: in Europa abbiamo speso “solo” 1.4 miliardi di euro per Rosetta, il primo veicolo spaziale nella storia ad avere orbitato attorno a una cometa sui cui poi ha effettuato uno storico -e trionfale- atterraggio. Continuate a pensare che le spettacolari immagini di 67P/Churyumov–Gerasimenko non siano valse il prezzo del biglietto?

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Calcolatrice alla mano, risulta che ogni cittadino europeo abbia sborsato 3.50 euro per la totalità della missione -meno della metà dell’ingresso al cinema per vedere “Interstellar”. Semplificando: il costo pro-capite per ogni europeo è stato di 20 centesimi all’anno, l’equivalente di due caramelle gommose gusto cola.
Grazie a Rosetta è stato possibile avere un’istantanea, certamente più nitida, sulla composizione e la struttura di una cometa, un oggetto spaziale prezioso che può trasmettere informazioni dal valore scientifico inestimabile sulla formazione dei pianeti del Sistema Solare -Terra inclusa- avvenuta ben 5 miliardi di anni fa. Non male, al prezzo di tre mocaccini.

I benefici, ovvero perché andiamo ancora nello spazio

Nel 2015 La Repubblica ha dato spazio al comico Vincenzo Salemme che così commentava la missione firmata NASA della sonda New Horizon, lanciata nove anni prima e con la quale è stato possibile catturare le prime, preziose, immagini di Plutone: “[…]a noi, di vedere le foto di Plutone da vicino che ci cambia nella vita?”. E poi, sulle missioni spaziali dall’approdo sulla luna in poi: “Abbiamo forse sconfitto il raffreddore? No. Abbiamo forse sconfitto le zanzare? Nemmeno. È finita la Salerno Reggio Calabria? Figurarsi!”. E “Andiamoci piano con le spese, soprattutto in questo momento infinito di crisi economica”.

A proposito di spese, si noti che il costo della missione New Horizon (ancora attiva) ammonta a 650 milioni di dollari. Una cifra esorbitante? Certo, ma mai come un giorno di intervento militare in Iraq, che ai cittadini americani richiede decisamente più soldi: la totalità della missione –ad oggi- è costata 2.400 miliardi di dollari, ma secondo uno studio della Brown University nei prossimi decenni la spesa potrebbe raggiungere i 6.000 miliardi.

Ma cosa vogliamo trovare nello spazio profondo e perché continuiamo a lanciare sonde verso le zone remote del nostro sistema solare? E soprattutto, escludendo chiare motivazioni scientifiche, quali possono essere i vantaggi delle indagini nello spazio per la nostra vita di tutti i giorni?

A tal proposito abbiamo raggiunto Andrea Giannini, Ground Station Engineer presso Leaf Space srl ed ex Ricercatore dell’ESA: “Ogni missione nello spazio profondo viene studiata nei minimi dettagli per raggiungere uno specifico obiettivo scientifico. Tuttavia è storicamente dimostrato che i maggiori benefici ottenuti nell’ambito dell’esplorazione interplanetaria sono derivanti dagli “effetti collaterali” di tali missioni. Forse non tutti sanno che il termometro a infrarossi per la lettura istantanea della temperatura corporea è ispirato a un brevetto NASA per la misurazione delle emissioni elettromagnetiche di stelle e pianeti. Prima di addormentarvi sul vostro comodo cuscino in memory-foam, pensate che la stessa imbottitura era utilizzata molti anni prima nei sedili delle astronavi per assorbire gli urti. Più banalmente, se siete dei patiti dei selfie e delle stories su Instagram dovete ringraziare sempre lo spazio, perché la tecnologia utilizzata dalla vostra fotocamera si ispira a quella impiegata da un satellite per convertire la luce emessa dalle stelle in un’immagine digitale”.

Quindi, se pensiamo che orbitare attorno a una cometa o studiare gli anelli di Saturno possa aiutare nell’immediato a guarire alcune malattie o a coprire i crateri delle strade di Roma, saremmo dei grandi illusi. Ma la storia e il tempo danno ragione alla ricerca, non solo spaziale. È la nostra naturale inclinazione che ci porta a prefiggerci obiettivi affascinanti, stimolanti, quasi irraggiungibili; ma è solo grazie all’ambizione e all’immaginazione che si può dare il via a una vera e propria “reazione a catena” da cui scaturisce il progresso scientifico a tuttotondo. Al prezzo di due chewingum all’anno.

Giorgia Asti

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