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Droni e lotta alla clandestinità: una favola italiana

Dopo la notizia della morte di Giovanni Lo Porto al confine fra Pakistan e Afghanistan durante un raid lo scorso gennaio per opera di un drone, che si ipotizza essere una versione armata del Predator (la B/MQ-9 Reaper), seguita da quella del terribile naufragio di clandestini avvenuto domenica, media e politici hanno iniziato a parlare del un possibile impiego di questo tipo di droni per colpire e affondare i barconi dei trafficanti di esseri umani che partono dalle coste nordafricane. Notizia che non potrebbe essere più falsa, ora vi spieghiamo il perché.

Che cos’è un drone?

Per chi non lo sapesse, visto l’argomento estremamente attuale, “drone” è il nome comune che sta per “aeromobile a pilotaggio remoto”: un velivolo senza pilota, controllato da un computer di bordo sotto direzione remota di un navigatore o pilota sito sul terreno o in un altro veicolo. I droni, in quanto aeromobili, devono sottostare alle stesse regole e procedure degli aerei con pilota ed equipaggio a bordo. Utilizzati principalmente per le operazioni militari, ormai vengono anche impiegati per applicazioni civili e usi di sicurezza.

La nostra flotta

Al momento le Forze Armate italiane dispongono di 12 droni: 6 nella versione Predator B/MQ 9, meglio conosciuti come “Reaper”, e 6 Predator di prima generazione, acquistati fra il 2009 e il 2011. Tutti usati per sorveglianza e ricognizione fra Afghanistan e Kosovo, solo un paio in Nord Africa. Nel 2011 l’Italia ha avviato le procedure per ottenere dagli Stati Uniti la tecnologia per armare i 6 Predator B, ma la Commissione del Senato americano incaricata della questione non ha ancora deliberato. Qualora la risposta dovesse essere affermativa, ci vorrebbero da 6 mesi a un anno per armare i Reaper con tre missili aria-terra anticarro Hellfire e guadagnare capacità operativa, senza contare i costi di questa operazione e delle prove sperimentali.

Difficoltà tecniche su tutti i fronti

A livello militare l’unica possibile opzione potrebbe essere affondare i barconi dai quali sbarcano i migranti, che invece vengono restituiti agli scafisti. Solo nel 2014, secondo il Ministero della Difesa, le imbarcazioni restituite sono state ben 800 fra scialuppe, gommoni e pescherecci.

Difficile se non impossibile impiegare bombardamenti aerei, per la difficoltà di identificare gli obiettivi e per il rischio, reale, che vengano utilizzati i migranti come scudi umani. Stesso discorso per le operazioni a terra, in quanto per ottenere l’autorizzazione ad operare direttamente nei porti è necessaria la collaborazione delle autorità locali, e spesso queste non esistono proprio o sono in conflitto fra loro. L’opzione sottomarini è da escludere per una questione di costi dovuti anche alla frequenza delle missioni per poterne trarre un riscontro, nonostante i mezzi subacquei siano stati impiegati in passato dalla Marina Nazionale per tracciare le rotte degli immigrati e usati anche nella campagna contro Gheddafi.

Molti hanno avanzato l’ipotesi di un aiuto da parte degli alleati europei, ma si tratta anche in questo caso di una possibilità assai remota in quando la Gran Bretagna opera con 6 Reaper armati assieme agli Usa sul fronte Isis e Al Quaeda, mentre Parigi impiega i suoi nel Mali a copertura della missione francese.

Un argomento delicato

Resta infine da considerare il lato “umano” della questione: al di là dei rischi che comporterebbe un attacco drone di tale portata, per i migranti stessi, vere vittime di un sistema mafioso e sbagliato sfruttatore di estrema disperazione, non è questa la soluzione adeguata a risolvere un problema di così grossa portata quanto l’immigrazione clandestina. Se parlando di migranti il primo pensiero ricorrerà sempre a un’azione violenta mossa nei loro confronti, non riusciremo mai a risalire al vero nocciolo della questione e ad eradicarlo definitivamente, in modo davvero efficace.

Cecilia Casadei

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