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Chi era Boris Giuliano, il commissario della fiction Rai

Intuito, competenza, professionalità e una grande umanità. Chiunque abbia conosciuto Boris Giuliano, ex capo della Squadra Mobile di Palermo ucciso dalla mafia il 21 luglio 1979, ha usato queste parole per descriverlo. Lo “sceriffo buono”, come lo chiamavano i colleghi, è ora protagonista della fiction Rai ‘Boris Giuliano: un poliziotto a Palermo’, la storia di un servitore dello Stato che ha saputo anticipare i tempi e che per la dedizione al lavoro, alla lotta contro la mafia per la difesa della legalità, ha pagato con la vita. Giuliano è stato tra i primi a intuire come si muoveva Cosa Nostra nella Palermo degli anni Settanta, ha compreso i legami internazionali della malavita siciliana e quelli con la politica e la finanza ed è per questo che è stato ucciso.

QUAL E’ LA MAFIA PIU’ PERICOLOSA IN ITALIA?

Nato a Piazza Armerina il 22 ottobre 1930, figlio di un sottoufficiale di Marina, Giorgio Boris Giuliano trascorre l’infanzia tra l’Italia e la Libia, prima di rientrare a Messina. Laureatosi, vince il concorso per ufficiale di Polizia nel 1962: terminato il corso a Roma, chiede di andare a Palermo dove viene assegnato alla Squadra Mobile, prima alla sezione Omicidi, poi come vice dirigente e dal 1976 come capo della stessa.

Giuliano si perfeziona alla scuola di Quantico dell’Fbi, trascorre un periodo per le strade di Soho, New York e stringe solidi rapporti con gli agenti della DEA e del Bureau. È un poliziotto atipico e moderno per l’Italia e per la Palermo degli anni Settanta: parla l’inglese, sa usare bene le armi e ha soprattutto un ottimo fiuto investigativo e l’intuito del vero poliziotto.

Nel capoluogo siciliano si è costruito una squadra di uomini giovani e molto preparati, ha una gestione moderna delle indagini, usando tra i primi anche le intercettazioni come strumento di indagine. Accanto alla tecnologia c’è anche l’umanità, quel senso di amore verso la comunità a cui sente di appartenere e che lo porta a conoscere ogni vicolo della città. Sa che la malavita è dentro la vita quotidiana dei palermitani e dà fondamentale importanza alla prevenzione, con la presenza della Polizia per le strade.

Il figlio Alessandro, attuale Questore di Lucca, in una recente intervista a Repubblica ha ricordato la sua vicinanza agli ultimi, le gentilezze rivolte ai bambini poveri che venivano lasciati soli, la sua profonda umanità che ha portato molta gente comune a rendergli omaggio il giorno del funerale, cosa strana in una città dove ci sono zone in cui gli “sbirri” sono il male.

Nei 16 anni trascorsi alla Mobile di Palermo ha tra le mani moltissimi casi ed è tra i primi a intuire gli schemi operativi della mafia, le collusioni con il potere politico e soprattutto con quello finanziario. Ha compreso, prima di tutti, che la droga è il soldo sonante della malavita e sa che sono i soldi la vera pista da seguire. Cosa ancora più importante, capisce il salto di qualità che la mafia palermitana ha compiuto, passando a una visione sempre più internazionale degli affari criminali.

Indaga su Totò Riina, intuendo che si sta aprendo una nuova fase nella lotta per il potere mafioso e anticipando la stagione della mattanza dei primi anni Ottanta. Le sue indagini arrivano a colpire gli interessi economici della criminalità, quei legami tra politica e finanza che vede nei cugini Nino e Ignazio Salvo il fulcro di quegli anni, veri “padroni delle esattorie cittadine”, come li ha definiti l’attuale procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti.

Indaga sulle morti dei giornalisti Mauro De Mauro e Mario Francese, sugli omicidi del procuratore capo Pietro Scaglione, del capo dei Carabinieri Giuseppe Russo, del segretario della DC di Palermo Michele Reina; pochi giorni prima della morte, entra in contatto con l’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore delle banche di Michele Sindona, per degli assegni trovati nelle tasche di un capomafia, dal valore di 300 milioni di lire e intestati a un nome di fantasia usato dal banchiere.

Porta allo scoperto i covi e i nascondigli del malavitosi, ma è colpendo il giro di droga che ottiene risultati mai visti prima. Nel 1979, grazie alle sue indagini, vengono sequestrate due valigette abbandonate sul nastro bagagli all’aeroporto di Palermo Punta Raisi: dentro ci sono 500mila dollari, somma che la malavita americana ha pagato ai palermitani per una partita di eroina. Poco dopo, i suoi uomini sequestrano 4 chili di eroina purissima, dal valore di 3 miliardi di lire, e un arsenale di armi: sono di Leoluca Bagarella, cognato di Riina. Quando gli agenti della DEA trovano 10 chili di eroina al J.F.K. di New York negli stessi giorni, il cerchio si chiude e Giuliano mette a segno un colpo da maestro.

Per i capomafia è un segnale chiaro. Boris Giuliano è un pericolo perché ha capito cosa e come lo stanno facendo e deve essere fermato. La mattina del 21 luglio 1979, Giuliano è al bar vicino casa per bere il caffè prima di andare al lavoro quando un killer, a volto coperto, esplode sette colpi di pistola alla schiena e lo uccide su ordine di Bagarella. Nel 1995 l’autore materiale e i mandanti del delitto sono stati condannati in via definitiva per la sua morte.

Lorena Cacace

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