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Ashraf Fayadh, il poeta condannato a morte in Arabia Saudita per le sue parole

Ashraf Fayadh, poeta e artista palestinese di 35 anni, è stato condannato a morte in Arabia Saudita per apostasia. A leggerlo non sembra neanche vero, eppure lo è, terribilmente. Un tribunale di Abha, regione sud orientale dell’Arabia Saudita, ha ribaltato la sentenza di primo grado in cui l’artista era stato condannato a 4 anni di carcere e 800 frustate, commutandola nella pena capitale il 17 novembre. La sua colpa? Aver scritto poesie che “allontanerebbero dall’Islam” e conservare sul cellulare foto di donne. Ora Fayadh ha un mese di tempo per fare ricorso, sperando che la pressione internazionale possa salvarlo dal boia.

Il caso di Fayadh purtroppo è solo l’ultimo che è balzato agli onori della cronaca. Prima di lui ci sono il blogger Raif Badawi, condannato al carcere e a mille frustate, e il giovanissimo attivista Nimr Baqir al Nimr, 17 anni, arrestato nel 2012 e condannato a morte.

Ora, l’opinione pubblica internazionale, supportata da campagne a suo favore (come quella di Amnesty International), spera di cambiare il corso degli eventi e salvarlo.

Tutto è iniziato il 6 agosto 2013 quando Fayadh, nato in Arabia da genitori palestinesi, viene arrestato dalla polizia religiosa dopo un diverbio con un altro artista: l’accusa è di aver pronunciato frasi contrarie alla morale e alla fede. Viene rilasciato su cauzione, ma ormai l’attenzione è tutta su di lui e il 1° gennaio 2014 viene nuovamente arrestato. L’accusa? Aver “promosso l’ateismo” nella raccolta di poesie Instructions Within” del 2008. Non solo. Secondo i magistrati, avrebbe violato l’articolo 6 della Legge saudita contro il cybercrime per aver scattato fotografie a donne col proprio cellulare e averle conservate. Il processo di primo grado si conclude con la condanna al carcere e a 800 frustate perché i giudici accolgono con favore il pentimento in merito all’accusa di apostasia (in tribunale Fayadh si è dichiarato musulmano). La Corte d’Appello ha ribaltato la sentenza, già di per sé folle, e lo ha condannato a morte per aver messo in discussione la religione e aver promosso l’ateismo.

Secondo Mona Kareem, poetessa e attivista che si subito attivata per la sua liberazione, Fayadh non ha un avvocato perché, dal giorno del suo arresto, non ha più i documenti d’identità. Tutto il processo è una violazione dei diritti umani fondamentali e non è un caso che questo avvenga in uno dei Paesi che più applica la pena di morte, tanto da mettere annunci di lavoro per futuri boia.

Per dargli voce dal carcere in cui è rinchiuso, lontano dai riflettori dei media e dal clamore, riportiamo una delle poesie che potrebbero portarlo alla morte, pubblicate su Irisnews e tradotte da Mona Kareem (in italiano da Chiara De Luca).

Scusami, perdonami

di non essere in grado di spremermi più lacrime per te

di non mormorare il tuo nome con nostalgia.

Ho rivolto il mio viso al calore delle tue braccia

Non avevo altro amore che te, solo te, e sono il primo tra quelli che ti cercano.”

Lorena Cacace

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