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8 marzo 2015: una cena non mi basta

Anche nel 2015 ci siamo interrogati sul senso di festeggiare la giornata internazionale della donna. Mi sembra davvero superfluo dire che sì, anche oggi ha senso celebrare questa data, ma forse non è così chiaro il perché. Da circa 100 anni si è scelto di scegliere un giorno per ricordare e discriminazioni, le lotte e le conquiste che le donne hanno conseguito per se stesse, a cominciare dal diritto di voto, di sciopero e di parità, ed è da quasi un secolo che troppo semplicisticamente si sceglie di celebrarlo discutendo sulla pizzeria in cui andare. Come se fosse tutto nel poter uscire con le amiche una sera il senso.

Care donne, non abbiamo capito molto se ci limitiamo a questo. Da ragazzina, quando ero una femminista molto più incazzata di adesso (il che è tutto dire), mi ripugnava proprio l’idea di uscire a cena a festeggiare la festa della donna, mi davano fastidio le mimose, gli auguri. Oggi, che ho messo su anni e neuroni, mi dico che in fondo io DEVO festeggiare l’8 marzo, perché ritengo che le lotte di 100 anni fa siano in fondo sempre le stesse. E’ vero, votiamo, portiamo i pantaloni, lavoriamo, ma ci manca tanto altro a cominciare dall’essere considerate quanto gli uomini che lavorano meglio, vengono pagati più equamente, lavorano anche quando ci sono figli piccoli. Ma non è soltanto questo il punto. Esiste, ed è forte anche in Italia, la cultura dell’abuso sulle donne, della violenza, dell’essere oggetti di proprietà di un maschio. L’anno scorso noi di Femen Italia abbiamo deciso di celebrare la ricorrenza dell’8 marzo con una foto che ricordasse la durezza del femminicidio e la freddezza dei numeri. Abbiamo scelto di fare uno scatto tra le mura domestiche per ricordare che spesso è proprio tra quelle mura, che dovrebbero essere le mura della nostra sicurezza, che invece tante donne trovano solo una vita di orrori e violenze e spesso anche la morte per mano del proprio compagno. Ci siamo chieste quante sarebbero state nel 2014 e sono state troppe. Qualsiasi numero sopra lo zero sarebbe stato troppo. Quest’anno abbiamo scelto di ricordare, ricordarci e, soprattutto, ricordarvi che siamo libere.

Prima di tutto di essere noi stesse, esattamente come lo vogliamo noi, senza doverci sentire osservate, criticate, giudicate. Essere libere significa avere dei diritti che ci garantiscano di poterlo essere. Sembra un gioco di parole, ma non lo è. Non lo è nel momento in cui scegliamo di indossare un pantalone piuttosto che una gonna per non attirare l’attenzione. Non lo è quando abbiamo paura di denunciare un abuso. Non lo è quando abbiamo dubbi sul lasciare un uomo per ciò che potrebbe farci. Non lo è quando firmiamo dimissioni in bianco per la futura maternità. Non lo è quando decidiamo che figli non ne vogliamo e ci dicono che cambieremo idea. Non lo è quando dobbiamo dimostrare di valere il doppio per ottenere la metà di quello che ci spetta. Non lo è quando il 90% dei ginecologi e obiettore e lavora in strutture pubbliche che dovrebbero garantire l’applicazione della legge 194. Questo è oggi il senso di celebrare l’8 marzo e mi sento offesa dall’idea che qualcuno, maschio in genere, la definisca “sagra della zoccola” o si aggrappi ad inutilità come “Non esiste una festa dell’uomo”, perché tutto questo è solo il sintomo della società fallocratica e patriarcale in cui viviamo. A me una cena non basta per celebrare questa giornata e non dovrebbe bastare a nessuna, ma perché ciò accada occorre una maggiore consapevolezza di noi stesse ed una maggiore informazione su noi stesse. Io oggi ho corso, ho corso per me stessa e per le altre donne, insieme a molte altre donne, per garantire le cure mediche ad altre donne che non possono permettersele e a chi legge queste mie righe, scritte con tutte le altre ragazze di Femen Italia, voglio augurare di essere libere, consapevoli, ribelli, amazzoni del nuovo millennio.

Marianna Piras

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