Rimborso spese stage: la linea sottile tra lavoro gratis e mini stipendio

Sono tanti i ragazzi italiani che, “vittime” della loro voglia di fare e di imparare, si ritrovano sempre più spesso costretti ad accettare contratti di stage, tirocinio e corsi di formazione, li si chiami come vi pare, che non prevedono il minimo della retribuzione. A mietere vittime è ovviamente la legge italiana che, neppure con la riforma Fornero, è stata mai in grado di risolvere una situazione non troppo carina che i giovani di oggi si ritrovano costretti a vivere. Nel nostro Paese non esiste una normativa che impone di pagare i lavoratori in stage, motivo per cui spetta all’azienda che ospita il tirocinante operare una scelta tra un mini stipendio e il lavoro gratis; ma sappiamo bene in che direzione viaggia la stragrande maggioranza delle aziende italiane. Vediamo cosa si intende quando si parla di rimborso spese stage.

Lo stage nasce in Inghilterra e ormai da molti anni è entrato ufficialmente nel sistema lavorativo italiano, portando con sè sostanziali differenze. Lo stage, detto anche tirocinio formativo, viene utilizzato all’estero o come strumento di credito formativo durante l’università o come periodo introduttivo alla mansione e al mondo delle aziende, in cui il neolaureato può imparare ‘on the job’ come funziona davvero il lavoro, in vista poi di una assunzione regolare con altra forma contrattuale. E fin qui, non c’è niente che si discosti troppo dal caso nostrano, se non per quella possibilità di assunzione post-stage che quasi sempre non c’è.

La più grossa differenza che intercorre tra l’Italia e il resto dei paesi europei risiede nel concetto di retribuzione: in Inghilterra come in molte altri nazioni si può effettivamente parlare di un rimborso spese degno di questo nome. Una volta approdata in Italia, la parola stage ha invece subito sostanziali distorsioni, ovviamente a favore delle aziende.

Molto spesso viene meno il vincolo temporale dello stage, prolungato all’infinito e che quindi si trasforma di fatto in un vero e proprio contratto di lavoro (privo però di contributi previdenziali, tredicesima, Tfr e ferie). Ma il dato più allarmante è quello riportato da un’analisi condotta dalla testata Repubblica degli Stagisti insieme all’Isfol, secondo cui più della metà degli stagisti non percepisce alcun rimborso spese, mentre un terzo riceve un contributo minimo (sotto i 500 euro) e solo uno stagista su sei riceve una somma superiore ai 500 euro. Il tutto a fronte di una spesa totale mensile a carico del giovane che spesso supera i mille euro (tra affitto stanza, cibo e trasporti).

C’è però un fronte che potrebbe quasi far sentire gli stagisti dei veri lavoratori: il trattamento fiscale. A livello fiscale l’eventuale compenso percepito viene assimilato a reddito da lavoro dipendente e va quindi dichiarato, mentre gli oneri dovuti per legge (come Irpef e imposte locale) vengono trattenuti già dall’azienda, che se ne fa carico. Verrebbe quasi da dire: oltre il danno, anche la beffa.

E anche per chi ha sperato che la riforma Fornero potesse se non risolvere quanto meno mettere un freno a questa situazione, dovrà ora ricredersi: la riforma del lavoro, che dovrebbe entrare in vigore il mese di aprile, intende fissare un rimborso minimo garantito di 400 euro, un modo per evitare che i giovani lavorino gratis per mesi o addirittura anni. C’è però una clausola di cui tener conto: spetterà alle regioni stabilire il rimborso minimo garantito. Inutile dire che c’è già chi, come la regione Lombardia alcuni mesi fa, ha dichiarato che avrebbe lasciato libera scelta alle aziende in merito al rimborso minimo garantito.

Se è vero che il lavoro nobilita l’uomo, la dignità degli stagisti che fine fa?

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