Responsabilità civile dei magistrati, la legge è una battaglia socialista e di civiltà

Quando nel 1988 fu approvata la legge Vassalli, la soluzione del problema della responsabilità civile dei giudici – evidenziato dalla plebiscitaria risposta al referendum dell’anno prima – era stata impostata secondo i seguenti principi di ragionevolezza istituzionale: no alla responsabilità diretta, che non era nell’oggetto del referendum (esclusivamente abrogativo di una modalità di esenzione quasi assoluta della responsabilità, imposta dal legislatore fascista); sì ad una responsabilità indiretta, che – mediante la frapposizione dello Stato, convenuto dal danneggiato ed attore nella successiva rivalsa – “schermasse” il giudice dal contatto diretto con il cittadino. Ciò per evitare iniziative intimidatorie, tali da compromettere l’indipendenza e la serenità del giudizio dei magistrati, in quanto li espone ad una sorta di “pressione psicologica” da parte di privati dalle grandi disponibilità economiche.

Il disegno di Giuliano Vassalli era chiaro e, se fosse stato attuato in buona fede, non saremmo al punto in cui siamo, un punto simboleggiato da numeri sconvolgenti: solo 7 casi di condanna di magistrati, in 25 anni di vigenza della legge, non rispecchiano certo la percezione pubblica del dislivello qualitativo del sistema giustizia.

Il fatto è che l’applicazione della legge del 1988 è stata affidata ad una magistratura nettamente inferiore a quella (Beria d’Argentine) che collaborò con Vassalli per la stesura di quella legge. Chi credesse che – abolendo il solo filtro di ammissibilità – si risolverebbe il problema, vedrebbe il dito invece della luna.

Nell’udienza di ammissibilità i giudici si sono inventati interpretazioni furbastre della “clausola di salvaguardia” dell’articolo 2: è questa che bisogna modificare (e rendere più chiara nel suo collegamento con la colpa grave), se si vuole far funzionare il sistema. Un sistema che non funziona, se è vero che sono già due le sentenze con cui la Corte di giustizia dell’Unione condanna l’Italia per la tassatività ed assolutezza della clausola di salvaguardia (anche se – ovviamente – si riferisce solo all’interpretazione del diritto della quale essa è competente, cioè quello europeo).

Per difendere questa assolutezza l’ANM è risalita alla legge delle guarentigie ed allo Statuto Albertino (condito con riferimenti alle deliberazioni del Consiglio d’Europa), per dimostrare che l’interpretazione del diritto è libera e non può soffrire né indirizzi, né censure. Semmai, secondo loro, l’atto potrà essere censurato, nei gradi successivi di giudizio, ma mai il giudice che l’ha scritto. Per la corporazione il precedente non vincola, la nomofilachia del grado massimo (noi proponiamo le Sezioni Unite della Cassazione) non vincola, il C.S.M. non vincola. Peccato che questa visione contrasti non solo con la percezione dei cittadini, ma anche con la relazione dei Saggi nominati dal Capo dello Stato nella primavera del 2013, che da tutte le provenienze politiche e culturali ritennero necessario introdurre elementi di vincolatività nella produzione giurisprudenziale incentrata sul precedente.

In un momento in cui ingegneri e medici sono chiamati a rendere conto del rispetto della “regola d’arte”, il giudice è libero di interpretare il diritto in modo personale ed originalissimo. Nel migliore dei mondi possibili, questa declinazione personale della valutazione esprimerebbe un arricchimento della giurisprudenza: ma in una fase in cui il giudice esamina centinaia di fascicoli al giorno, in cui – più che interprete del diritto – è il titolare di uno sportello pubblico, siamo proprio certi che questa originalità rappresenti sempre il frutto di un approfondimento prezioso? Siamo proprio certi che motivazioni apodittiche, eccentriche o non calzanti non siano un modo comodo per fronteggiare le iniziative seriali della litigiosità e del conflitto sociale?

Se si discosta dal modo in cui la vedono tutti gli altri giudici della Repubblica, il suo è sempre un contributo intellettuale in controtendenza, o talvolta è semplicemente il frutto di sciatteria, incompletezza di analisi, automatismo burocratico? E quando è così, il suo autore non merita di essere chiamato a risponderne in qualche modo? Ci si dice che la responsabilità disciplinare non è la sede, perché non può trasformarsi in un quarto grado di giudizio: allora perché non obbligare lo Stato a rivolgersi ai suoi colleghi giudici, investiti in sede civile, mediante il meccanismo della rivalsa dopo che lo Stato s’è visto soccombente dinanzi al privato danneggiato?

Che non stiamo nel migliore dei mondi, ne sono consapevoli gli stessi magistrati, se è vero che ad inizio agosto in Senato Piero Grasso s’è rifiutato di porre ai voti la mia proposta di eleggere per sorteggio tra tutti i giudici i membri del CSM. Quando si viene al dunque, la categoria si rende ben conto che il livello qualitativo non è eccellente per tutti i suoi iscritti, e non vuole correre il rischio di mettere le proprie progressioni economiche nelle mani di un collega, al quale pure si dà mano libera sulla libertà e sui beni dei “normali” cittadini.

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