L’idea di una città sostenibile: tra sogno e realtà

Ecco prendere forma questa città sognata ma possibile, bella, logica, amica, come io so che saranno le città da qui a duecento anni. Una notte quieta, sotto un cielo inconosciuto, amico, soffice, blu.
La linea di costa era punteggiata da torri misteriose che illuminavano la notte, quasi bruciassero per una energia interiore, quasi di vulcano, graffiando la volta del firmamento, arruffando l’eterno quieto corso delle constellazioni. Torri, simili tra loro ma nello stesso tempo assolutamente differenti, cresciute secondo la stessa legge ma in modo diverso, come dodici alberi della stessa specie, identici in tutto per portamento, per foglie, per altezza, per fiori e per frutti, eppure assolutamente diversi.

E d’improvviso ho capito quanto di troppo ci fosse in quell’affannarsi a costruire skyline assurdamente confusi, con edifici eterogenei, in gara tra loro per forma ed altezza e colore e materiale in un modo così artefatto e caotico come avevo visto da altri tratti di costa. Aggregazioni misteriose, cristalli di sale protési vero il blu profondo del cielo. Superfici vetrate sensibili ed intelligenti che di giorno catturavano calore dal sole e la restituivano in forma di energia e di luce. Misteriosi ed inspiegabili agli occhi del navigante notturno con le pupille in bilico tra il Piccolo Carro ed una costa non segnata sulle carte né raccontata da alcuno.

In pianta questi edifici parevano emersi da fratture telluriche piene di acque diverse e solidificati sotto il cielo proprio come frammenti di salgemma, limpidi, trasparenti, casuali e diversi tra loro seppure sottesi da una legge di aggregazione unica ed inspiegabilmente polimorfica, così sensibile da registrare nel proprio Dna il casuale inglobamento di un grumo di polline, di una spora, di uno scarto di vento, di un filo di luce. Geometrie sfaccettate, frantumate, che in realtà costituivano un unico gigantesco sistema di specchi fotosensibili inclinati per assorbire energia solare durante tutto l’arco del giorno e dell’anno. Le torri erano le più alte che avessi mai visto, non meno di un miglio marino.

Avevano basi possenti, estese. Sembravano le ali di grandi uccelli marini ripiegati a coprire e proteggere i loro pulcini, mi sembrò che coprissero d’ombra interi isolati, non singole porzioni di spazio o semplici piazze o mall. Gli spazi aperti erano coperti di vegetazione folta, possibili sulla costa sabbiosa e desertica dal riciclo delle acque che per vene subcutanee alimentavano segretamente prati, e fiori, e palmizi lussureggianti. All’interno delle torri gli abitanti respiravano aria catturata in pieno mare, rinfrescata nel loro percorso sotto la superficie dell’acqua, o presa direttamente dalla sommità delle torri, e fluiva per vene segrete secondo le leggi della fisica, senza alcun apporto di energia esterna, semplicemente assecondando le leggi della dinamica dei fluidi.

Le facciate trasparenti erano costituite da una doppia serie di camere tra cristalli all’interno delle quali l’aria in perenne movimento portava refrigerio e benessere ambientale. La superficie di cristallo all’esterno aveva la trama delle antiche sete orientali, una delicatissima texture di celle al silicio trasformava luce e calore in energia pulita e perenne. La parete più interna era di cristallo polarizzato con cui i felici abitanti creavano all’interno tutta la riservatezza di cui avevano piacere di circondarsi con un semplice interruttore. Tutto logico, naturale, matematico, pulito, quanto di più simile avessi mai visto disegnato a quel profilo di bellezza matematica assoluta che sottende l’Universo.

Tutto al suo posto, in relazioni obbligate, sequenziali, in cui pareva che lo sforzo del progetto fosse in direzione dell’intuizione, fosse concentrato sulla scoperta delle tracce, delle verità esistenti, non verso l’invenzione. Non c’erano le geometrie di Brunelleschi, di Alberti o dei Maestri del Novecento a modulare il costruito perché non bastavano più, e quell’”esisto in virtù dei miei dubbi”, pietra d’angolo del pensiero moderno, dentro una matita era esploso nell’impossibilità di alludere a certezze, sia pure sub specie di figure simmetriche e rassicuranti.

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